“Ligio Zanini, poeta per la libertà” di Silvio Valdevit Lovriha

Pubblichiamo l’intervento scritto da  Silvio Valdevit Lovriha per il 25 Aprile, per ricordare Ligio Zanini,  importante poeta istriano che ha lottato strenuamente  per la libertà. Dentro uno scenario storico del quale si parla tanto anche ai nostri giorni, quasi un secolo dopo. Per l’occasione, il nostro autore ha avuto la fortuna di parlare con la figlia del poeta Ligio, Biancastella, già giornalista della Rai regionale di Trieste.

“Intendo celebrare quest’ anno in modo particolare, tratteggiando, per quanto possibile, la vicenda umana di Ligio Zanini ( n. 1927 in Istria a Rovigno- m. 1993 a Pola ), maestro elementare e massimo poeta istriano.
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Ligio Zanini

Quando negli anni trenta Zanini frequentava le scuole elementari, a Rovigno, cittadina di straordinaria bellezza, cominciavano ad aggirarsi per le calli lugubri caporioni fascisti, manganellatori ben conosciuti, volutamente arroganti e prepotenti, perché fosse ben chiaro che erano finiti i tempi dell’Austria tollerante, rispettosa delle minoranze linguistiche italiane, slovene, croate. Racconta Zanini che a scuola venivano dettati problemi come questo: “Il balilla Luigi possiede nove figurine del nostro amato Duce; il suo camerata Scipio ne ha tre volte di più ed il camerata Cino il doppio di quelle di Scipio. Domanda: quante figurine del Duce, che è la nostra Luce, possiedono assieme i tre balilla? “. I maestri e anche i preti democratici e antifascisti erano stati estromessi, sostituiti da persone fidate del regime, assegnati a posti anche di alta responsabilità, pur se ignoranti al massimo. Il padre di Ligio, Sandro Zanini, dovette chiudere la sua bottega di esperto mastro carpentiere per essersi rifiutato di indossare la camicia nera. Fu costretto a vivere in baracche di periferia, a fare grandi sacrifici per mantenere la famiglia.  Altri erano stati costretti a cambiare addirittura il cognome, a italianizzarlo, ad esempio Morelli al posto dell’originario Ukmar. Erano i tempi in cui spadroneggiavano gli “ustascia”, fascisti croati, i quali si macchiarono di brutalità alla pari di quelle dei nazisti. Molto significativo che il nonno di Ligio, mentre da antifascista auspicava la sconfitta del regime fascista e degli invasori tedeschi, contemporaneamente manifestava al nipote le sue preoccupazioni per il dopo, per la politica accentratrice, non democratica di Tito. Riteneva che, in luogo degli interessi popolari, sarebbero stati privilegiati gli interessi di pochi, della ristretta cerchia dei politici, smaniosi del potere, “bramosi solo delle sedie”, come diceva il nonno. Il nostro Ligio Zanini purtroppo sperimentò sulla propria pelle quanto avesse visto giusto il suo avo! Nel 1949, al guastarsi del rapporto tra Tito e Stalin, Ligio respinse le pressanti richieste politiche di schierarsi per Tito, rivendicando il diritto di essere un libero cittadino, di poter pensare con la propria testa. Lui, che era rimasto sulla propria terra, pur stravolto dal grande dramma degli esuli che scappavano per rifugiarsi in Italia, venne così arrestato e confinato nella tremenda isola Goli Otok – Isola Calva, solo pietre, riarsa dal sole. A ventidue anni venne quindi forzatamente separato dalla amata moglie Bianca, che era in attesa di una nuova creatura. Fu costretto, come tanti altri, compresi gli operai comunisti di Monfalcone accorsi a suo tempo a combattere con i partigiani jugoslavi, a spostare senza senso per mesi inutili pesanti massi di roccia, mal nutrito, ridotto a pelle e ossa, stremato e senza forze, senza avere notizia dei propri familiari. Ritornò a casa, miracolosamente salvo, solo nel 1952, dopo quattro anni di brutale prigionia. Pur persona molto acculturata, dovette accontentarsi di lavori precari, prima di poter di nuovo tornare a fare il suo mestiere di maestro di scuola e di laurearsi in Pedagogia nel 1979. Dopo anni di inaudite tribolazioni finalmente poté soddisfare le sue due grandi passioni: andare a pescare nelle limpide e generose acque delle località istriane e dedicarsi a comporre una valanga di mirabili poesie dialettali.

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Rovigno

Il poeta Ligio Zanini rovignonese ha lottato per la libertà, per non essere omologato, contro le varie tirannie, vecchie e nuove. Il 25 aprile, giornata della Liberazione, deve essere vissuta secondo l’indicazione di Calamandrei e cioè come impegno permanente di difesa e consolidamento della democrazia. Contro ogni forma di tirannia, di accentramento di poteri, di menomazione del concreto ruolo del Parlamento, valorizzando il pluralismo, il confronto delle opinioni, la libertà d’informazione, l’autonomia della magistratura. Ligio Zanini si è battuto per questo modello di società democratica. Mi sembra che il 25 aprile sia la data ideale per continuare a ricordarlo e rendergli gli onori che assolutamente merita.

Silvio Valdevit Lovriha

p.s. Ringrazio la figlia Biacastella Zanini, che gentilmente ha letto per prima queste righe

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Il punto di vista – “Il 25 aprile, dalle Fosse Ardeatine a Gaza, passando per Bucha e il 7 ottobre scorso” – di Mariantonietta Valzano

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lente ingrandimento

“Il punto di vista” di Mariantonietta Valzano

Oggi è la festa della Liberazione dal Nazifascismo, quel periodo di disumanizzazione che nel secolo scorso ne ha caratterizzato la prima metà, oltre a partorire un paio di guerre. Qualcuno storcerà il naso poiché nella prima Guerra Mondiale non vi era né il Partito Fascista né quello nazista. Giusto. Il primo in Italia si consolida dal 1922 e il secondo in Germania dal 1933. Ma…tutti i semi non si possono trovare proprio alla fine della prima Guerra Mondiale? O meglio, tutti i prodromi sono scritti proprio nella sconfitta tedesca e suo conseguente assetto socio-economico di quasi sfruttamento, a cui la nazione tedesca è stata sottoposta dal 1918, poiché, avendo perso, è stata costretta a pagare un “debito di guerra” tanto  elevato da causare  povertà nella massa dei suoi cittadini e, di conseguenza, un buon bacino per futuri odio e rivolte, come si è dimostrato. In Italia si stavano facendo gli italiani, con tanti sacrifici che la maggior parte della popolazione poco comprendeva. Vi era ancora tanta analfabetizzazione e i grandi latifondi non davano molto agio ai contadini mezzadri che costituivano una grande fetta della produzione. Il Paese, a fatica, stava cercando di modernizzarsi, anche se la povertà restava un grande tappeto in cui soccombevano in tanti, molti, moltissimi. Per cui, anche questo costituì un tessuto adatto a odio, rivalse e ricerca di un salvatore. E come è andato a finire? Alle Fosse Ardeatine è andata a finire. Anche qui qualcuno storcerà il naso e ha ragione chi lo farà. Non si devono mai dimenticare le stragi di Marzabotto, Sant’Anna di Stazzema e la guerra civile che ha dilaniato il nostro paese dopo l’8 settembre, quando la resistenza partigiana cercava di liberare i territori, pezzo per pezzo, aiutando gli alleati che avanzavano da sud. In tutto questo periodo si sono consumati delitti e vendette, figli di quel regime che aveva portato milioni di persone nei campi di sterminio, nei campi di battaglia o al cimitero. Allora perché le Fosse Ardeatine? Perché fu uno dei tanti atti di vendetta del Reich ai danni di cittadini inermi, che solo il 25 aprile può pacificare. Le esecuzioni, conseguenti l’attentato di via Rasella, sono una ferita nella storia della città di Roma, ma non solo, perché scava il solco del dolore anche nella storia italiana. L’attentato del 23 marzo ad opera di una cellula del GAP, si prefiggeva un atto plateale che potesse spronare i cittadini romani alla rivolta. Facciamo un passo indietro. Dopo l’armistizio dell’8 settembre del ’43, Roma viene occupata dalle truppe tedesche e viene dichiarata “aperta”, cioé non sarà bombardata poiché è incapace di condurre azioni difensive o offensive, in quanto sguarnita di armamenti. Detto ciò Roma è sguarnita anche di cibo; la gente si arrangia per sopravvivere ed è stremata dalle privazioni e dalla fame, sottoposta a vari rastrellamenti che conducono i cittadini ai campi di lavoro o sterminio. Leggendo  “La storia contesa” di Luca Falsini e “L’ordine é già stato eseguito” di Alessandro Portelli, si potrà avere un quadro più ampio e dettagliato della genesi dell’attentato a una colonna militare tedesca in transito, con l’uccisione di 32 soldati e un ragazzino di 12 anni. Riferisco solo degli accenni riportati nei testi succitati. La reazione tedesca fu immediata sia nella violenza che nella pianificazione. Furono presi i prigionieri politici di via Tasso, ebrei arrestati e detenuti per reati comuni, che all’epoca potevano anche essere furto di generi alimentari. Anche dei militari italiani che erano stati fermati perché come tanti non si erano adeguati al regime dopo l’8 settembre. Inoltre, a tutt’oggi, ci sono 7 vittime, prese e mai identificate dopo la scoperta della grotta della strage. Comunque tutte le vittime furono individuate su liste proposte da esponenti fascisti. Ricordo che vennero tutti caricati su camion, fatti scendere, portati all’interno dell’antro nella roccia sulla via Ardeatina e uccisi. Man mano che aumentavano le vittime, i condannati venivano fatti salire sul monte dei cadaveri prima di essere uccisi. 335 morti! Studenti, insegnanti, muratori, manovali, avvocati, commercianti, carabinieri, ragazzini…gente comune, persone. Secondo i racconti dei testimony, che erano i contadini che lavoravano nei dintorni della zona dell’eccidio, si sono susseguiti camion su camion, che scaricavano persone in fila per il loro “macello”. Appena l’eccidio fu concluso, il giorno dopo l’attentato il 24 marzo, sono apparsi in giro per la città volantini, affissi sui muri: “L’ordine è già stato eseguito”. Questo era ben specificato dopo aver comunicato il perché. Nei vari studi revisionisti che si sono verificati, senza peraltro trovare ragionevolezza, si sono accusati i membri del GAP  autori dell’attentato, di non essersi autodenunciati per evitare il massacro. Ma come è ben spiegato nei testi, non vi sarebbe stato neanche il tempo; i nazisti hanno dato subito seguito alla legge marziale in vigore: 10 persone per ogni tedesco ucciso. Nel tribunale che ha condannato gli autori della strage e i mandanti, si è proceduto alla conta, che non tornava, delle vittime. Si doveva procedere all’esecuzione di 320 persone e non di 335; questo fu preso come atto da condannare in via principale nei confronti di Kappler, ritenendolo colpevole di omicidio non di strage. Lascio cadere il discorso, ma mi voglio soffermare su cosa sta succedendo oggi. In Ucraina sono due anni che si combattono due popoli, e non si possono dimenticare le stragi, torture, stupri di Bucha, che tanto assomigliano al massacro di Srebrenica del luglio 1995 e a quello del 7 ottobre 2023 in Israele. Il punto comune sono le vittime, gente comune, inermi, persone. E ce ne sono altre in altri luoghi di questa guerra mondiale a pezzi, a cui manca  un 25 aprile analogo a quello del 1945. In Italia, forse, viste le discussioni che tornano ad ogni anniversario, manca una pacificazione e una accettazione reale dei conti fatti col passato fascista. Forse bisogna sempre ribadire che ai partigiani, a cui si deve la liberazione senza alcun tipo di dubbio, va riconosciuto il valore antifascista come fondamentale per la nostra libertà, per il nostro presente, figlio di quella storia. Il prendere coscienza della storia del nostro passato e delle conseguenze del ventennio, può portarci, oltre le diatribe inutili, a imparare cosa abbia significato. Ricordo che i costituenti lo hanno ben specificato in deroga all’art. 48 e nel proclamare i diritti di libertà, di democrazia e bilanciamento dei poteri LEGISLATIVO, ESECUTIVO E GIUDIZIARIO al fine di non far accadere mai più ciò che è stato. Il mio unico dubbio è: ma tutti gli italiani ne sono consapevoli? Buona festa del 25 aprile a tutti voi.

P.S. non ho dimenticato ciò che sta accadendo a Gaza. Inutile dire che è un massacro a tappeto, dove per colpire i militanti di Hamas si sta procedendo a “radere al suolo” la popolazione. Inutile dire quale covo di odio possa essere questo conflitto da ambo le parti, proprio per le vittime che attualmente ammonta a  34.000 palestinesi e un migliaio del 7 ottobre, senza contare le vittime che ancora adesso si stanno sacrificando sull’altare del non-senso e gli ostaggi che hanno subìto tanti orrori.
Inutile dire che bisogna TROVARE il modo per coesistere in PACE: perché un modo ci deve essere. Ovviamente è inutile dire che è appannaggio di chi ha la capacità e il potere di farla questa pace, l’onere di trovare il modo, non a me né ad altri comuni mortali.
Sembra tutto inutile… Ma forse è meglio dirlo ancora una volta in più.
Mariantonietta Valzano

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“Il valore di una ricorrenza” di Maria Rosaria Teni

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Sono tanti i motivi per cui è doveroso ricordare il valore di una ricorrenza come il “25 Aprile”. Intanto perché nello stesso significato di libertà si innesta la naturale ispirazione di ogni uomo, ma soprattutto perché questa libertà conquistata veniva dopo un periodo di oppressione e di iniquità inenarrabili. Sottolineo inoltre, quanto sia fondamentale che soprattutto i giovani, che rappresentano gli uomini di domani, siano consapevoli di quello che è stato fatto da tanti loro coetanei negli anni in cui gli ideali erano così forti da superare anche la paura. Leggendo le “Lettere dei condannati a morte della Resistenza”, molte delle quali scritte da ragazzi ventenni, si percepisce lo smarrimento e l’angoscia, il disgusto per le efferatezze di cui si sono macchiati i carcerieri, ma si coglie anche la fierezza e il coraggio, la fede in una patria che potesse rinascere ed essere finalmente affrancata da un regime che si è imposto con la violenza e col sangue. La morte si sublima per una patria libera, una patria di tutti perché dove c’è un ideale che batte più forte e attutisce anche la paura, bisogna inchinarsi. Donne e uomini di coraggio giacciono tra le campagne, seppelliti in fosse comuni, dilaniati, torturati fieri di essere morti per liberare tutti gli italiani, ormai schiacciati da privazioni e da una guerra sfibrante e lunga. Chi ricorda oggi le tante donne di valore, temerarie e appassionate, figlie, mogli e madri che sono arrivate anche ad impugnare le armi per la lotta nel nome della Libertà? Storie terribili di sevizie, umiliazioni e minacce subite da donne e uomini che meritano tutto il nostro rispetto e il nostro accorato ricordo. La strage di Marzabotto, con almeno 770 vittime, così come gli eccidi di Sant’Anna di Stazzema, di Lippa di Elsane, del Padule di Fucecchio, solo per citare quelli con più vittime a seguito di rastrellamenti. Il 24 marzo 1944 a Roma l’attentato di via Rasella contro un reparto tedesco da parte dei GAP, avvenuto il giorno prima, che provocò l’immediata e spietata rappresaglia delle Fosse Ardeatine. Una vera e propria mattanza si è consumata nei 20 mesi che vanno dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945. Si stima che il 75 per cento dei combattenti per la libertà dell’Italia dal nazifascismo era costituito da ragazzi nati dal 1922 al 1925. Furono 22mila i giovanissimi tra i 17 e i 19 anni che in modi e tempi diversi aderirono alla Resistenza per un «atto libero della volontà». Uomini e donne, civili e militari, diversi tra loro per estrazione sociale, colore politico ed età. All’indomani dell’armistizio avevano abbracciato la Resistenza oltre 22mila giovanissimi tra i diciassette e i diciannove anni. Erano circa 24mila i giovani tra i venti e i ventitré anni, mentre circa 14mila tra i ventiquattro e i trent’anni. Scrive Aldo Cazzullo[1]: “È importante raccontare la Resistenza come fu davvero: storia di popolo non di partito; non “una cosa di sinistra”, ma la rinascita della patria”. Mi sento di condividere questa chiave di lettura offerta dal giornalista e sono sempre più consapevole che la memoria non debba perdersi dietro dibattitti e dispute da salotto, ma alimentarsi dalla lettura di testimonianze obiettive e realistiche che riguardano il vissuto di quei giorni della Resistenza, per non affondare nel mare dell’indifferenza e del qualunquismo. Oggi non si deve esultare perché il 25 Aprile è un giorno segnato in rosso sul calendario, e quindi di vacanza, ma si deve fare in modo di commemorare una data che è stata scritta col sangue di donne e uomini che hanno combattuto per liberare l’Italia dal nazifascismo e consegnarla a noi, ripulita da ogni dittatura. Quindi se noi, in questi giorni, possiamo essere liberi di scrivere, di avere opinioni, di manifestare e anche di dissentire, lo dobbiamo a quei valorosi che la storia ci trasmette e verso cui dobbiamo rispetto e gratitudine. Onoreremo i nostri morti, continuando a studiare, informarci, conoscere per arginare ricorrenti e incombenti derive antidemocratiche e repressive.
Maria Rosaria Teni

[1] A. Cazzullo, Viva l’Italia! Risorgimento e Resistenza: perché dobbiamo essere orgogliosi della nostra nazione, Mondadori, 2010

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“La Ceramica” di Lucio Zaniboni

La parola ceramica deriva dal greco Keramos, ma le sue origini sono molto più antiche e risalgono al neolitico, età della pietra, ma forse ancor prima.
Entrare a contatto col mondo della ceramica, vuole dire ripercorrere secoli di storia di tutto, perché ha inizio dalla argilla (creta). Dio stesso, nella creazione, l’ha usata e col suo soffio ha dato vita spirituale all’impasto umano.
Chi colleziona ceramiche, una delle mie passioni, ha un campo infinito di ricerche e studio del cammino dell’umanità che si è avvalsa della creta per approntare angoli di fuoco, basi per cibi… in quanto questa materia, essiccando, tende a indurirsi; diventa compatta, quindi utilizzabile in un’infinità di modi.
Occuparsi di queste creazioni, vuole dire rivedere la vita umana dalle origini ai giorni nostri e scoprire come una materia così umile sia divenuta anche arte, bellezza, meraviglia.

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ceramiche cinesi

Si parte dalla vasta, inimitabile arte orientale (Cina e Giappone, India) in cui, oltre la lavorazione della creta, si è sviluppata quella delle pietre dure, dell’avorio e del corallo.

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ceramiche cinesi

In Cina la ceramica è stata prodotta forse mentre regnava la dinastia Tang (618-907), anche se già in precedenza, con la dinastia Han, c’era la produzione di porcellana dura grigiastra.

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ceramiche cinesi

L’Europa è venuta a conoscenza delle straordinarie creazioni orientali attraverso i viaggi dei grandi esploratori.
Merito primo del viaggiatore, scrittore, ambasciatore e mercante italiano veneziano Marco Polo, partito con il padre Nicolò e lo zio Matteo, con incarico del papa Gregorio X di portare un messaggio al Gran Khan Kublay. Il viaggio durò più di tre anni, ma gli permise una vasta conoscenza di usi, costumi e scoperte, anche poiché accolto benevolmente (1271). Nella sua opera “Il Milione” (derivato da Emilione con cui si definiva la famiglia) raccolse preziose informazioni, che generarono nuovi viaggi. Le nuove conoscenze influenzarono la vita e il costume in Europa. Polo come prima tappa arrivò in Terrasanta, poi a Bagdad, Samarcanda, Karakorum, Pechino, Costantinopoli, ampliando anche la conoscenza delle creazioni ceramiche cinesi.
Un altro viaggiatore, prima di lui Vasco da Gama, già nel 1498 aveva aperto la via marittima per le Indie, così da dare luogo alla fondazione della Compagnia Olandese delle Indie, ma fu solo nel Settecento che nacque in Europa la voglia di rendersi conto dei segreti di lavorazione della ceramica cinese, bianca, traslucida e compatta. L’arte cinese, derivata dalla manipolazione di argilla richiederebbe pagine e pagine, ma non è questo l’assunto e neppure di quella egizia, greca, etrusca e romana. Basterebbe entrare nei musei e soffermarsi ad ammirare le pitture vascolari, le sculture in terracotta, i bassorilievi, le statue… per rendersi conto di quanto si perda a non venire a contatto con quelle creazioni artistiche, cui la pittura ha aggiunto ulteriori armonie.Chi conosce i vasi greci o etruschi, con figure nera o rossa, sa di quali meraviglie parlo. Si possono solo ammirare, perché il collezionismo è praticamente vietato, in quanto i reperti sono patrimonio nazionale. Esiste qualche pezzo autorizzato, catalogato, senza possibilità di estradizione.
Come detto, nel Settecento dalle numerose importazioni di ceramiche orientali, nacque il desiderio di una produzione autonoma europea. Era necessario perciò scoprire il segreto della lavorazione cinese.
Dopo numerosi tentativi (si era tentato anche di arrivare alla fabbricazione dell’oro) nel 1710 a Dresda, Augusto il Forte, elettore di Sassonia, incaricò (o lo fece imprigionare) il chimico Johann Friedrich Böttger, di risolvere il mistero.

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vasi Sèvres e vasi napoleonici

Qualunque sia l’ipotesi vera, perché si parlò anche di rivelazione cinese, ovviamente a carattere di lucro, si riuscì a passare a un impasto di colore rosso e da qui alla vera porcellana bianca.
foto allegate all'articolo ceramiche_page-0008La terracotta viene ottenuta cuocendo l’argilla ad alte temperature, la porcellana cuocendo ceramica (composta da argilla, feldspati, sabbia silicia, ossidi di ferro, allumina e quarzo). La maiolica è una produzione ceramica a pasta porosa, ottenuta sciogliendo in acqua i minerali preparati. Sul risultato viene steso uno smalto bianco, a rendere impermeabilità.

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colonna e vaso impero Limoges

Dal 1710 in poi, in tutta Europa sorsero e fiorirono fornaci per produrre terracotte, ceramiche, maioliche e porcellane per usi funzionali, ma anche, e forse più, per vera e propria forma artistica. In Germania a Meisseu e Dresda. In Francia a Limoges (grazie ai giacimenti di caolino della zona), a Sèvres, con decorazioni e smalti in oro; a Parigi come Vieux Paris (in genere non firmata) e a Nevers. In Spagna a Madrid, Barcellona, Valenzia, Malaga e Coruña. In Austria a Vienna, dove divennero famose per le miniature a piccolo fuoco.

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ceramica Sèvres

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ceramiche Sèvres

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ceramica inglese

In inghilterra la prima produzione di ceramica risale al 1708 ad opera di artigiani tedeschi, al servizio del Re Giorgio I ed erano chiamate Bone China.

In Italia tramite Carlo Ginori si ha l’inizio in una villa di Doccia (1735 Comune di Pontassieve – Toscana) con una produzione che poco aveva da invidiare alla famosa tedesca.

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ceramiche Capodimonte

Altre fornaci a Deruta (Umbria) con produzione alterna. A Capodimonte (Napoli) per volontà del re Carlo di Borbone e Amalia di Sassonia, con l’aspirazione di raggiungere la fama di Meisseu.La produzione veniva fatta con forni a pietra e alimentazione con carbone coke.
A Caltagirone (Sicilia) a carattere presepiale di piccole statue della Sacra Famiglia e dei santi.
A Faenza con il desiderio di superare le fornaci di Nevers.
La ceramica è una materia che richiama un vero interesse per la storia dell’umanità che con l’intelligenza e il lavoro è riuscita (in una creazione a imitazione di quella divina) a trasformare un’umile materia (l’argilla) in forme artistiche meravigliose.

Lucio Zaniboni

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“Solitudine” di Rainer Maria Rilke

La solitudine è come la pioggia.
Si alza dal mare verso sera;
dalle pianure lontane, distanti,
sale verso il cielo a cui da sempre appartiene.
E proprio dal cielo ricade sulla città.

Piove quaggiù nelle ore crepuscolari,
allorché tutti i vicoli si volgono verso il mattino
e i corpi, che nulla hanno trovato,
delusi e affranti si lasciano l’un l’altro;
e persone che si odiano a vicenda
sono costrette a dormire insieme in un letto unico:

è allora che la solitudine scorre insieme ai fiumi.

Rainer Maria Rilke

Poesie (Torino, Einaudi-Gallimard 1994). Traduzione di Giacomo Cacciapaglia

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RAINER MARIA RILKE, Poeta boemo di lingua tedesca (Praga 1875 – Muzot, Svizzera, 1926). Indirizzato dal padre alla carriera delle armi, tradizionale nella famiglia, a 16 anni abbandonò l’accademia militare. Passando da Linz a Praga, di qui ancora a Monaco e a Berlino, fece studî irregolari. La certezza di una vocazione poetica gli venne a Monaco, dove fu nel 1896 e dove conobbe Lou Andreas-Salomé, di 14 anni più anziana, legandosi a lei in un singolare rapporto affettivo. Determinanti per lo sviluppo della sua personalità furono le esperienze di viaggio in Toscana (Florenzer Tagebuch, 1898) e soprattutto in Russia (1898 e 1899), dove fu ricevuto dal vecchio Tolstoj. La sensibilità per le arti figurative spinse R. a vivere per due anni (1900-02) a Worpswede, villaggio di artisti nei pressi di Brema, dove si unì in matrimonio di breve durata alla scultrice Clara Westhoff, allieva di Rodin. Dal 1903 R., che non aveva ancora avuto una stabile residenza, trovò a Parigi una specie di patria, e in Rodin un interlocutore privilegiato e un modello per la sua ricerca formale. Ma anche durante gli anni parigini continuò la serie dei suoi viaggi per tutta l’Europa e anche in Africa; tra l’altro a Roma (1903-04) e al castello di Duino presso Trieste (1911-12), dove fu ospite della principessa von Thurn und Taxis. Allo scoppio della guerra nel 1914, fu trattenuto in Germania, dove prestò servizio, a Monaco, in un ufficio di estrema retrovia. Finita la guerra, distrutto in Europa, dall’Austria alla Russia, il mondo in cui aveva posto fiducia, R. si stabilì, dopo un nuovo e più breve soggiorno a Parigi, nel piccolo castello alpino di Muzot, nel Vallese, ospite di un nuovo mecenate. Gli ultimi anni furono molto penosi, a causa del rapido declino fisico; morì di leucemia, all’età di 51 anni. ▭ R. fu narratore squisito (Am Leben hin, 1898; Zwei Prager Geschichten, 1899; Die Letzten, 1902) e si cimentò anche nel teatro, recependo suggestioni naturalistiche (Ohne Gegenwart, 1898; Das tägliche Leben, 1902). Ma fu soprattutto, o forse esclusivamente, un lirico, fra i più significativi e fra i più fortunati del secolo. Già le sue prime esperienze poetiche sono caratterizzate da musicalità malinconica (Leben und Lieder, 1894; Wegwarten, 1895-96; Larenopfer, 1896), tentativo anche di un ancoraggio alle tradizioni della città natale, che però, per lui di radice e cultura tedesca, non fu mai interamente sua. Traumgekrönt (1897) e Advent (1898) preludono a Mir zur Feier (1899), in cui per la prima volta emerge la tematica dell’angelo, centro di una religiosità sofferta e ben presto discosta da ogni confessionalità. È di quello stesso anno, anche se pubblicato solo nel 1906, il volumetto in prosa lirica Die Weise von Liebe und Tod des Cornets Christoph Rilke, serie di rapide impressioni su cui corre, con languore neoromantico, una struggente nostalgia di vita sospinta verso la meta di una prematura dissoluzione. Intanto nel 1902 uscì Das Buch der Bilder, raccolta di liriche di ricca suggestione figurativa, dettata dall’esperienza di Worpswede, e nel 1905 Das Stundenbuch, libro di meditazioni religiose, testimonianza di una sete di Dio ricercato sotto ogni forma e presso ogni creatura, primo capolavoro di R. per carica concettuale e per rigoglio stilistico. Nei Neue Gedichte (2 voll., 1907-08) R. assorbì la lezione di Rodin, affidandosi alla lirica per attingere quella che egli definiva “visibile inferiorità delle cose”, plastificando in un linguaggio di ricercata semplicità una sfera che di continuo sfiora l’ineffabile. Un momentaneo ritorno alla prosa si ebbe col romanzo Die Aufzeichnungen des Malte Laurids Brigge (1910), nel cui giovane protagonista, poeta e nobile, si riflette l’esasperata sensibilità fisica e spirituale dell’autore. Passarono varî anni prima che R. tornasse a pubblicare; ma quando lo fece, nel 1923, diede insieme, in una sintomatica polarizzazione, le sue prove più organicamente coordinate, le Duineser Elegien e Die Sonette an Orpheus. Le 10 Elegien, concepite e scritte, con ampî intermezzi, lungo l’arco di oltre 10 anni, ripropongono ed esaltano la tematica dell’angelo e, per suo tramite, una nuova mistica cosmica, che ignora Dio ma non il divino, pervasa da un’aspirazione non sempre tutta espressa ed esprimibile verso l’unità dell’essere germinale, tanto più urgente per quanto più funesta si è fatta, con gli sconvolgimenti intervenuti e con quelli incombenti, l’età presente. I Sonette, in integrazione e insieme in contrapposizione alle Elegien, cantano la gioia della contemplazione poetica in un’epoca impoetica, espressione di un simbolismo decadentistico giunto, nel momento stesso in cui si esalta, alla sua estenuazione. [ Treccani –Enciclopedia ]

 

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“Novembre” di Serena Rossi – a cura di Cipriano Gentilino

Ho letto con piacere e curiosità la nuova silloge NOVEMBRE ( Nulladie editore – 2024 ) della poetessa e artista visiva milanese Serena Rossi. Con il piacere di cercare corrispondenze tematiche tra suoi versi e la sua attività pittorico-visiva e con la curiosità di conoscere gli sviluppi artistico-emozionali dalla sua precedente silloge “Non serve la paura” (Nulladie editore -2022 ). La silloge, introdotta da Vincenzo Guarracino, è divisa in tre parti : In itinere, Civilmente, Nel tempo e si conclude con specifiche note biografiche dell’autrice che comunica il suo percorso in poesia e nelle arti visive.Tra queste emergono la partecipazione alla Biennale di Venezia nel 2011 e alla Biennale di Firenze nel 2023 nonché l’ultima silloge pubblicata Spazi 2022 Edizione Cosmopoli in lingua italiana e rumena e la fondazione del premio artistico-letterario “Vivi la realtà dentro e fuori” che è già arrivato, in Milano, alla sua terza edizione. Dalla lettura del suo “Novembre” emergono, a mio modo di vedere, alcuni elementi esistenziali-emotivi e altri di impatto visivo e grafico. Tante poesie hanno per titolo un “Senza Titolo” o “Inedito” come a comunicare la ricerca di una possibilità di comunicazione e la consapevolezza della transitorietà delle esperienze nella fugacità e nella rapidità del vivere e del vivere metropolitano.Con un linguaggio visivo si passa da un vissuto all’altro lungo un cammino che è intriso di una pervasiva emozione di fragilità del nostro attuale essere nel mondo.Un modo d’essere che Serena Rossi ci presenta attraverso flash di emozioni e parole spesso senza alcuna punteggiatura che spingono a fermarsi e rileggere, comunicando anche la necessità di trovare un tempo e un luogo per una consapevolezza interiore anche attraverso momenti di vissuti corporei che diventano metafora, talora di asprezza, talora di rifugio in un sé o in un noi drammaticamente fuso come in:

Senza titolo 7

Essere soglia.

Piatta memoria

E come statuina rotta scheggiata

Fragile. Manca un pezzo.

Inganno di cioccolata

Emicrania assicurata.

Essere soglia.

Pezzo del mondo

senza suono.

Alibi

Pillole per non pensare

Pillole per naufragare

I sogni.

Pillole per non sognare 

Nessuno.

I sogni. Nettuno con il forcone che ti assottiglia 

Chili per rimbalzare

Nel sogno.

Nettare di ciliegia

Scommessa mai presa,

erba mediterranea buona.

Ciglia allungate nere

Sottolinea la chiglia nel mare.

Catarsi

Catarsi.

E lento apro il mandarino, 

Sbuccio la buccia acida.

Impiastriccia la sera 

Della mia malinconia.

Non siamo soli

Siamo ombre e soglia.

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Cipriano Gentilino

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Il punto di vista – “L’esercizio della democrazia”– di Mariantonietta Valzano

lente ingrandimento

“Il punto di vista” di Mariantonietta Valzano

L’Italia è una Repubblica parlamentare in cui il Parlamento è il riferimento del popolo che ne elegge i membri, nell’esercizio del Governo in modo democratico. Quindi la democrazia è il perno con cui viene attuata la dialettica parlamentare e in conseguenza una dialettica democratica all’interno del Paese. Quello che a mio avviso non funziona più è il modo con cui si attua questa dialettica e di conseguenza l’esercizio della democrazia.
In un paese che si rispetti, che sia civile e sia comunque rispettoso dei diritti di tutti, si devono confrontare le idee, si devono proporre percorsi e progetti ma in modo costruttivo. In tal senso cosa ha valore? Sicuramente confrontarsi, senza scontro, ma con l’ascolto, sia in Parlamento che in piazza. Di conseguenza se all’interno delle forze parlamentari si hanno idee diverse, nell’agone politico (che oggi è costituito anche da situazioni mediatiche molto variegate, dai social ai media tradizionali) si possono e devono discutere, proporre e infine decidere. Se le decisioni sono prese e non sono condivise dal popolo, quest’ultimo ha la piazza per esprimersi, la piazza va ascoltata. Ovviamente tutte le bagarre, gli insulti, gli scontri fisici e le repressioni non sono contemplate. Ci sono regole da seguire? Certo.
Non potrò mai dimenticare un mio alunno all’inizio della mia carriera, trent’anni fa, che in occasione di uno “scontro” in Parlamento disse: “Maestra tu dici di non dire parolacce ma in Parlamento lo fanno”.
E questo purtroppo oggi c’è anche al di fuori del consesso principale, gli insulti alla Premier Meloni da parte del Governatore della Campania De Luca o il gesto ignobile e di offesa del ragazzo che mima la pistola verso Colei che è il Capo del Governo Italiano fa comprendere come non vi sia rispetto adeguato in ogni situazione e non dipende da una diversità   di vedute ma una azione di prevaricazione che non si comprende molto.  Questi sono solo due esempi ma ci sono tanti fatti rivolti verso esponenti di tutte le forze politiche che testimoniano un modo di confrontarsi non proprio “sereno”. Ma questa è democrazia?  Poi vi sono fatti ancora più gravi. Penso che nella memoria di ognuno di noi sia impresso ciò che è accaduto al G8 di Genova nel 2001 per cui la corte europea dei diritti dell’uomo ha detto che è stato violato l’art. 3 della Costituzione sul divieto di tortura, trattamenti inumani e degradanti.
Oggi è fresco ancora il ricordo delle “manganellate agli studenti” minorenni da parte di alcuni esponenti delle forze dell’ordine, di qualche tempo fa a Pisa. Questa è democrazia? Sono i rischi della democrazia alcuni dicono. Ma ci sono spesso nelle manifestazioni anche attacchi alle forze dell’ordine, ma è altresì vero che tutte le volte che si sono verificate sono stati perpetrati da gruppi di “incappucciati” o no che sono degli infiltrati all’interno della piazza. Bisogna forse cercare di evitare questo, dando la possibilità di esprimersi a tutti seguendo le regole. L’arroganza, la violenza e l’offesa non sono regole.
Non voglio neanche dimenticare un fatto che secondo me risulta grave. In una manifestazione di piazza una signora anziana davanti ad un poliziotto della celere dice: “Lo sa cosa ha detto il Presidente Mattarella?” Il poliziotto risponde: “Mattarella non è il mio Presidente”
Mi chiedo allora se non viva in un altro Paese, poiché una offesa del genere al Capo dello Stato da parte di un esponente delle forze dell’ordine che comunque deve rispettare egli stesso la Costituzione  e le leggi è un obbligo.
Ora … non sarà che noi italiani dovremmo familiarizzare un po’ meglio con gli obblighi ? e con il rispetto?
Forse non è sufficiente l’educazione civica nelle scuole se il tessuto sociale non si fonda su un sana modalità di confrontarsi, dove sia giusto rappresentare le proprie idee in modo civile.. e magari più costruttivo per tutti se solo venissero prese in considerazione?
Resto con tutti i miei punti interrogativi in attesa degli eventi.

Mariantonietta Valzano

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“Nella casa del vento” di Maria Rosaria Teni – recensione a cura di Patrizia Persico

È con un misto di emozione e gratitudine che propongo l’ottima recensione che mi è stata dedicata dalla Professoressa Patrizia Persico, una persona di grande sensibilità. Le sue riflessioni così profonde hanno reso l’intensità dell’intera raccolta e, attraverso un susseguirsi di interpretazioni che scavano le parole, si è giunti a percepire il senso intrinseco dei versi in essa contenuti. Un aspetto interessante su cui Patrizia si è soffermata, e che mi ha colpito particolarmente, è stato aver messo in luce le sensazioni diverse che scaturiscono dalla lettura delle poesie, soffermandosi sull’importanza delle esperienze vissute che sono state determinanti per la creazione dei versi. Un ringraziamento sincero a Patrizia Persico e alle sue riflessioni che contribuiscono a rendere vivo un testo poetico.

copertina NELLA CASA DEL VENTOHo letto il libro di poesie “Nella casa del vento” di Maria Rosaria Teni e, nel desiderio di esprimere le sensazioni suscitate dalla lettura, mi accingo nel compito di elaborare una mia personale interpretazione della silloge.
Come ha detto qualcuno prima di me: “Non so scrivere poesie, ma le riconosco quando le leggo”.
Tuttavia è compito assai arduo riuscire a rendere il giusto merito all’autrice, esprimere fedelmente, e soprattutto rispettosamente, tutte quelle emozioni che scaturiscono dalla sua lettura. Ho pensato di partire da una poesia, da quella che più mi ha colpito, ma non sono riuscita a scegliere: quella alla madre? quella alla figlia? quella al compagno di una vita? al padre, a Marta; non è possibile sceglierne una!
Ho centellinato i passi, ho dovuto procedere lentamente, soffermandomi su ogni singolo verso. No, mi correggo, su ogni singola parola, perché risulta incastrata là, proprio come un diamante in uno splendido castone. Il mio cuore ha avuto continui sussulti; in quei versi ci sono io, tu, chiunque sia un attento osservatore della vita e delle esperienze vissute, chiunque si emozioni per il mondo, la natura, i propri affetti.Ciascun verso mi ha toccato e commosso, portando a galla sensazioni diverse, dolore sopito in alcuni casi, grandi emozioni positive in altri, ansia per la caducità umana, speranza che la nostra forza possa salvarci.
Ci sono pensieri che scavano nella nostra anima e ci fanno riflettere, dando spazio ad una personale interpretazione, ad un adattamento alle proprie esperienze di vita e tutto questo rappresenta la magia che permette al lettore di indossare quei versi ché rappresentano il proprio habitus. Trovo che questa sia la vera chiave di tutte le liriche presenti, ossia farti sentire protagonista.
La suddivisione del libro in sette parti mette ordine ai temi trattati: il silenzio, il tempo, i ricordi, il mare, i sentimenti, il vento e la poesia, il mondo. Nessuno realmente slegato dagli altri perché è tenuto insieme dall’anima e dalle sue inquietudini.
Lo stile è scorrevole, intenso, talora lirico, talora narrato. L’ermetismo che pervade alcune poesie lascia spazio a quel libero adattamento del testo alle proprie esperienze di vita (come accennavo prima) e rinforza il turbamento. Gli aspetti metaforici esaltano la condizione dell’uomo che, nel mondo, nonostante tutto, resterà per sempre solo un piccolo fallace elemento della Natura che con essa deve fare i conti se non vuole restare schiacciato dai suoi stessi errori.
È proprio quella fragilità umana e la sua indeterminatezza, che da una parte vengono mostrate in tutta la loro caducità, dall’altra son pronte a dare la speranza che tutti si possa divenire uomini e donne risolti. E chiudo con una citazione autoriale che esplicita questa mia conclusione: RESPIRO LA BREZZA DI UNA NOVELLA ALBA.
Patrizia Persico

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“Laggiù, presso il Salice” di Antonio Teni

Una lirica che denota una  dignità di stile di incomparabile eleganza, volta all’ascolto di un’interiorità che si dibatte, inquieta, tra i sentieri dell’esistenza. Il poeta si affida a parole mute che, tuttavia pur nel loro silenzio, lo conducono ad una navigazione in un mare di suggestiva atmosfera sinestetica che raccoglie  il suo andare incerto. Preziosismi classici e rimandi letterari emozionano per l’ardente passione con cui esprimono sensazioni di eterna illusione mentre tra crepuscoli e aurore la vita si avvia verso la metaforica “valle di azzurri silenzi”. [Maria Rosaria Teni]

E poi camminerò verso il silenzio
delle parole…
Per le città ubertose di solitudini
dove i sogni dei reietti affogano nella babele di lingue,
che mai s’intenderanno.
E verso il silenzio delle parole
me ne andrò…
A cercare, come un figlio,
il mare e il suo profumo.
E la salsedine delle burrasche e
delle maree salirà
a invischiare le caravelle
del mio inesausto guardare.
Da davanzali e pazienti balaustre,
più in alto dell’albero maestro e oltre,
s’involerà lo sguardo
per scorger nuove terre.
Navigando verso il silenzio
degli uragani e delle parole.
Sulle rotte della notte,
verso il silenzio delle parole,
di me racconterò a un brillio
di stelle.
Ah la strada dei giorni,
quando scorrazzando erravo!
Monca di lazzi e batticuori,
da un pezzo, si tace.
Solo, nel mio farmi
muraglia di silenzio
alle speranze del cuore…
inultimente sbocciate.
Indifferente al distendersi delle colline
sul mare…
Il mare che sempre le isole del
mito offrì al veleggiar mio dolce!
E già mi stempero nel colore che
che scioglie i contorni delle cose.
E il bianco della tela
non più brama,oramai,
le forme e il paesaggio.
Sicuro, a passo svelto,
verso il silenzio delle parole!
Già mi profilo nell’iride ferrigna
del crepuscolo,
dove il fatato rinascere
dei sogni si perde nel paese
conosciuto ai tramonti e ignoto
ai risvegli.
Il tempo,
magico pifferaio,
suona la grave Pavane di Fauré
e presso il muto salice,
dove appesa è la cetra,
sull’acque verdi fluire vedo
Ofelia l’eterea.
D’erbe vestita e fiori,
che scorre silente
sull’acque…
Sparsi i lunghi ramati capelli,
tra giunghi e ninfee trascorre
silente, leggera.
Di Lei e del suo dolore,
della sua dolce follia,
chi più rammenta?
Ma gli arcobaleni nati dai suoi
capelli e i fiumi sorti dalle sue
bianche dita profondamente
ricordano…
Un po’ d’azzurro in questa triste
storia lieve come il profumo,
che parla di noi,
fragile umanità che sempre
ama sognare…
Lo so, che laggiù una valle di
azzurri silenzi m’attende:
silenzio fiorito di eteree parole!
Ma…oh bellezza del vivere
oltre il silenzio della strada!
Lontano gia s’ode, oltre i monti,
il vociar della luce…

Antonio Teni

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“Lettera da un bambino mai nato” di Myriam Ambrosini

Come avevo premesso a inizio marzo, al rinnovo della rubrica dedicata alle  donne, l’obiettivo precipuo della nostra rivista è quello di portare avanti riflessioni e approfondimenti relativi all’universo femminile, non relegando solo nel mese di marzo la condivisione di tematiche e argomentazioni volte a far conoscere il volto di tante donne.
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Tengo a sottolineare la permanenza della rubrica “A proposito di donne” che è aperta per tutto l’arco dell’anno, perché come ribadito in più occasioni, ogni giorno è opportuno parlare, condividere e far emergere situazioni nebulose che offendono la dignità non solo delle donne, ma di ogni essere umano. Interessante e di grande intensità  il racconto scritto dalla nostra collaboratrice Myriam Ambrosini; una commovente e imaginaria missiva  che tocca le più intime corde dell’animo, che proponiamo oggi ai nostri lettori.

LETTERA DA UN BAMBINO MAI NATO

Mamma … Avrei voluto vedere il cielo, il sole, le nuvole. Avrei voluto vedere il mare … Ho sentito il rumore delle sue onde quando ero ancora dentro di te.
Ma, soprattutto, avrei voluto vedere il tuo viso, mamma .
Quanto male quei colpi … Quelle spinte assassine a punta di coltello che spegnevano le nostre vite!
Non sentivo più il tuo cuore battere: ma IO c’ero ancora ed il mio cuoricino ha invece seguitato a battere e ti chiamavo …ti chiamavo, anche se non conoscevo ancora il tuo nome.
Ma l’AMORE non ha bisogno di nomi …
E l’odio, l’odio cieco invece di quell’uomo – che non riesco a chiamare padre – ha mille nomi … Egoismo, viltà, crudeltà ed anche paura … Paura di ciò che non si è capaci di essere e si uccide allora chi questo coraggio invece lo ha.

Mamma io seguito però a vivere con te e tu con me: un TUTT’UNO per sempre.
E forse quel cielo, quel sole e quelle nuvole li vedremo insieme.
Se un Dio pietoso ce lo permetterà, ci siederemo vicini sulla riva del mare ed ascolteremo, abbracciati, i sussurri delle onde e vedremo il triangolo dorato che formerà sull’acqua un sole che, per noi, non tramonterà mai …

MYRIAM AMBROSINI

* Dedicato a Giulia Tramontano ed a suo figlio Thiago.

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