“Lascia sia il vento” di Margherita Guidacci


Lascia sia il vento a completar le parole
che la tua voce non sa articolare.
Non ci occorrono più le parole.
Siamo entrambi il medesimo silenzio.
Come due specchi, svuotati d’ ogni immagine,
che l’uno all’altro rendono
un semplice raggio. E ci basta.
Margherita Guidacci

da “ Le Poesie ”,  (Rizzoli, 1965)

Margherita Guidacci

 Margherita Guidacci, nacque a Firenze il 25 aprile 1921 da Antonio, avvocato, e da Leonella Cartacci. Figlia unica, trascorse un’infanzia e un’adolescenza solitarie, a contatto con un mondo di adulti e di anziani senza stabilire relazioni amichevoli con i coetanei, dedicandosi soprattutto allo studio e alla lettura. Erano per lei occasione di distrazione i soggiorni estivi a Scarperia, paese d’origine dei genitori, dove maturò quel rapporto con la natura che sarebbe diventato motivo ricorrente nella sua poesia. Trascorre la sua infanzia nella campagna Toscana, a contatto con poeti come Carlo Betocchi, Piero Bargellini e Nicola Lisi, cugino della poetessa. A Firenze frequentò nel 1934, il liceo Michelangelo. Nel 1939 si iscrisse alla facoltà di lettere e scoprì la letteratura contemporanea attraverso l’insegnamento di G. De Robertis, con il quale si laureò, nel 1943, discutendo una tesi – ritenuta audace e ottenuta dopo molte insistenze – sulla poesia di G. Ungaretti. In questa circostanza, per andare alle radici della formazione ungarettiana, aveva approfondito la letteratura francese, in particolare l’opera di S. Mallarmé e di P. Valéry. Nella Firenze degli anni Quaranta, interessandosi di poesia, Margherita Guidacci si trovò inevitabilmente a confrontarsi con l’ermetismo ma, dopo poche prove nella linea di tale poetica, si accorse che non le era congeniale, sentendo il bisogno di esprimersi in un linguaggio magari “impuro”, ma denso di pensiero e più concreto. La religiosità del suo spirito, alimentata dal clima familiare e dalla lettura dei testi sacri, la coscienza del mistero insito nella vita e nella morte, che non trova risposte se non nella fede, la avvicinarono a scrittori quali Emily Dickinson e T.S. Eliot. Margherita Guidacci inizia dal 1945 l’insegnamento della Letteratura Inglese ed Americana nei licei pubblici, per poi passare all’Università di Macerata e successivamente all’Università Maria Assunta in Vaticano. L’anno seguente, con “La sabbia e l’angelo” e con “Morte del ricco” (1954), la poetessa compone dei piccoli poemi, simili a dei racconti interiori dove si alternano immagini della vita a fantasie sulla morte, avendo come filo conduttore il caso, il suo potere e le sue misteriose ragioni. Ne risulta un’alternanza di emozioni di non facile comprensione, nonostante la scelta di un linguaggio non estremamente complesso. Più tardi, dalla fine degl’anni ’50, con le raccolte poetiche di “Giorno dei Santi” (1957) e “Paglia e polvere” (1961), la poetessa fiorentina si prepara ad un importante passaggio al sentimento di cristianità, intesa come luce alla fine di dolori da tempo impigliati tra loro e che non le hanno permesso altro che soffrire. Da ogni verso nelle opere sucessive di “Neurosuite” (1970), “Il vuoto e le forme” (1977) e “L’altare di Isenheim” (1981), si può comprendere che nessuna vittoria, gioia, si ottiene mantenendo gl’occhi chiusi sulle cause del dolore. In “Anello del tempo”, opera pubblicata postuma alla sua morte e considerata il testamento poetico della poetessa, Margherita Guidacci ci insegna, attraverso un poetare semplice e penetrante che l’inesprimibile e l’incomprensibile sono parte essenziale della distanza tra il lettore e il poeta. Tuttavia, quest’ultimi sono uniti dalla ricerca della libertà spirituale, intellettuale e dal comune succedersi di cose straordinarie come la nascita e la morte di una persona.
Vincitrice del Premio Dessì e del Premio Scanno, Margherita Guidacci muore a Roma il 19 giugno 1992. [da Enciclopedia Teccani]