“La casa rossa” di Maria Rosaria Vetrugno


Inaugura la rubrica “IL TUO RACCONTO” il testo che ha come titolo “La casa rossa” di Maria Rosaria Vetrugno,  nata a Lecce nel 1964 e residente a Novoli. Amante degli animali e della natura in genere, apprezza tutto ciò che ha a che fare con la musica, la danza e la recitazione e si diverte talvolta a giocare con le rime. È stata finalista al Primo Concorso Vitulivaria  2011 ed è stata segnalata nelle due edizioni successive. È stata finalista al Primo Premio letterario “Prometheus” organizzato dall’A.C. “Festina Lente”, si è classificata 3^ al Premio Nazionale di poesia 2017 “Filippu e panaru”. Finalista per la sezione narrativa al Premio nazionale “Vitulivaria” 2017, nonché segnalata per la poesia nello stesso concorso. Autrice di una silloge di poesie dal titolo “Momenti” edita nel 2014 da Lupo editore, nel 2017 ha scritto una commedia in vernacolo “Un uomo in mezzo a due dame…”, rappresentata con successo dalla Compagnia Teatrale “Le Sarmente” di Novoli.
In questo racconto breve, scritta con il cuore, traspare una tenerezza e una nostalgia per un tempo che non torna se non nei ricordi. Nel ripercorrere le strade consuete, il paesaggio si materializza e si anima, diventando un tutt’uno con la protagonista, che rievoca un passato lontano, ma ancora vicino e presente. [M.R.Teni]

Sono le sette del mattino e ha appena smesso di piovere, uno di quei temporaletti estivi, brevi, che per un attimo regalano l’illusione che sia servito a rinfrescare l’aria, dopo giorni e giorni di calura insopportabile. Ed eccomi qui, a percorrere la solita strada, respirando felice l’odore della pioggia, misto a quello del grano da poco falciato. Certo, pensavo, questa via la potrei percorrere anche ad occhi chiusi, tanto la conosco bene, a piedi come in macchina…o in bicicletta, come ora, tanto mi è famigliare…Ne conosco ogni metro, comprese le viuzze secondarie che si immettono in essa. E poi gli alberi, i campi, i casolari…e si che li conosco bene, uno per uno. Ogni cosa che ho intorno qui potrebbe raccontare un pezzo della mia vita, tutto esiste da sempre, eppure, ogni volta, è come lo vedessi per la prima volta. Non mi stanco mai di questo amato paesaggio che mi ha visto crescere, giorno dopo giorno, e ha accolto con discrezione confidenze, risate, corse felici, così come le prime ansie da adolescente, nonché le prime speranze di giovanissima innamorata, tutta la mia trepidazione. E poi i sogni, la mia serenità. Quanto tempo è passato. Guardo il cielo sopra la mia testa. Si, forse solo il cielo non è mai stato lo stesso, continuamente ridisegnato e colorato da nubi sempre diverse, come quelle che ora passano grigie sopra di me e che, probabilmente, fra qualche istante, si sposteranno, lasciando il posto all’azzurro, cambiandogli faccia ma non identità. Il cielo, si, il cielo…Quanta meraviglia in quei tramonti, tra i due alberi d’ulivo, così vicini da toccarsi con le chiome, vicino al ciglio della strada, prima di una grande curva. E la casa rossa, la mia tanto cara e amata casa rossa: il riparo dagli acquazzoni, dai temporali, così come dal sole ma anche…dalle paure e dalle prime sofferenze della vita. Rimane ormai abbandonata, circondata da vegetazione che nessuno più cura da chissà quanti anni. E quel che resta di essa è all’ombra di due palme invecchiate e stanche, piegate dal vento e dal tempo. Quanti discorsi hanno ascoltato quelle mura consumate, quanti incontri sul far della sera, con le farfalle nello stomaco e un giovane cuore in mano da offrire all’amore, quello vero…Due biciclette appoggiate su un muretto di cinta ora crollato, distrutto, e ci si sedeva su quel muretto, dando il via a voli pindarici che iniziavano con un “forse” o un “magari” o un “semmai”, per diventare poi un tappeto volante su cui lasciarsi trasportare in luoghi misteriosi e sconosciuti. Dopo la casa rossa un incrocio, a sinistra di esso un recinto, che delimita una lingua di terra dove anni fa un cucciolo, un batuffolo bianco, con due occhi neri vivacissimi, scodinzolante, correva abbaiando, attirando l’attenzione di passanti in bicicletta o a piedi. E’ lì, è ancora lì che si gode il riposo del guerriero, non abbaia più ai passanti; appesantito nel corpo e nell’incedere, alza a malapena la testa, che pigramente riabbassa, appoggiando il muso sulle zampe anteriori. Toghy…già, Toghy. Avevo persino progettato la sua fuga, per toglierlo da quella gabbia, perché riassaporasse la libertà, randagio, si, pensavo, ma libero…ma poi non ne avevo avuto il coraggio e, quasi con un senso di colpa, ero andata a trovarlo quasi ogni giorno, per anni, a portargli cibo e…carezze, soprattutto carezze. Infilavo la mano nelle maglie più larghe della rete e lui avvicinava il muso e me la leccava. Adesso, guardandolo, mi fa tenerezza, è come se fosse un po’ mio da sempre ma è come se ne vedessi solo ora l’età, la sua…la mia! Già, l’età…il tempo…l’età. Percorrere questa via, in questa stagione della vita, è diventato per me oramai quasi…terapeutico, un antistress naturale, un antidepressivo naturale. Al primo segnale di caduta, mi basta tracciare una linea ideale, che ricongiunge i punti corrispondenti a quegli step di vissuto ed ecco che…mi ritrovo, ritrovo me stessa e, come per incanto, mi sento a casa, protetta, al sicuro. Ma in questa strada non c’è solo tanta vita, la mia vita, ma anche la morte, la morte di qualcuno strappato anzitempo alla vita stessa, di cui resta soltanto una foto, ingiallita dal sole, dalla polvere, il vento e una croce fissata su una colonnina di marmo. E un albero, che porta il suo nome e fa ombra, quasi a proteggere e custodire quell’angolo di dolore assurdo, inspiegabile, immenso. E allora diventa quasi inevitabile pensare quanto io sia fortunata rispetto a quella vita mancata, che non potrà mai avere, come me, il suo sacco pieno di ricordi, non avrà più memoria di luoghi, non potrà risentire voci, risate, non potrà neppure godere, come me, dell’incanto di certi tramonti estivi, tra quei due alberi d’ulivo…

“Bella la vita, che se ne va”- cantava una vecchia canzone…e io, in questa “bellissima” giornata uggiosa, osservo tutto il mio semplice mondo, racchiuso in questa via e…mi sento fortunata perché, da quel “Carrozzone” non sono ancora scesa.

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