“Siamo poca roba, Dio, siamo quasi niente” di Franco Loi


Non posso fare a meno di ricordare un grande poeta, comparso pochi giorni fa alla vigilia dei suoi 91 anni: Franco Loi, un poeta che amo perché mi riporta inevitabilmente alla terra dove ho vissuto la mia infanzia, una Lombardia operosa e avvolta nella nebbia, fredda solo in apparenza, ma capace di sorprendente generosità, e soprattutto perché è stato un uomo umile, di grande profondità e spessore. Militante comunista ha sempre professato l’importanza della parola che “può indurre negli altri il dubbio, può spingere alla riflessione”  e ha riposto un’infinitala fiducia nella poesia. Anni fa, in occasione di un’intervista su Repubblica, diceva: «Proprio nei momenti di crisi, la cultura diventa ancora più necessaria. Essenziale. Può salvarci solo la passione per il conoscere, il desiderio di capire. Se non so chi sono e dove sono, sarò sempre schiacciato da tutto ciò che di negativo viene da fuori; sarò raggirato, ingannato, costretto a correre dietro a bandiere e speranze ridicole. Senza conoscenza e auto-coscienza si va nel buio, si cede alla grettezza, si rischia di credere che l’economia sia tutto, che siano le sue leggi a salvare o a condannare gli uomini». Il compito di colui che scrive è fondamentalmente quello di utilizaare le parole, strumento essenziale per portare a riflettere sulla realtà che si vive, nel bene  e nel male, cercando di comprendere e spiegare i meccanismi che regolano la convivenza tra gli uomini. In lui, una grande spiritualità coesisteva con la fede nella giustizia sociale e la poesia, intrapresa verso i quarant’anni, era il mezzo espressivo che gli consentiva di indagare l’animo umano  e la propria coscienza nel rapporto con gli altri, con la gente comune, che si dispera, che lavora, che combatte quotidianamente. A questo proposito, si comprende appieno la scelta di usare il dialetto meneghino, “il linguaggio del popolo”, concentrandosi su tematiche che sono state, e continuano ad essere, per lui piuttosto significative, fra cui la religione, l’introspezione, la guerra, il dolore.  Il suo  straordinario lirismo,  colmo di realismo, capace di mescolare diversi elementi ed influenze, lo rendono uno fra i poeti più apprezzati esensibili della poesia contemporanea. [M.R.Teni]

Siamo poca roba, Dio, siamo quasi niente

da “Liber” (1988)

Siamo poca roba, Dio, siamo quasi niente,
forse memoria siamo, un soffio d’aria,
ombra degli uomini che passano, i nostri parenti,
forse il ricordo d’una qualche vita perduta,
un tuono che da lontano ci richiama,
la forma che sarà di altra progenie…
Ma come facciamo pietà, quanto dolore,
e quanta vita se la porta il vento!
Andiamo senza sapere, cantando gli inni,
e a noi di ciò che eravamo non è rimasto niente.

Sèm poca roba, Diu, sèm squasi nient

da “Liber” (1988)

Sèm poca roba, Diu, sèm squasi nient,
forsi memoria sèm, un buff de l’aria,
umbría di òmm che passa, i noster gent,
forsi ‘l record d’una quaj vita spersa,
un tron che de luntan el ghe reciàma,
la furma che sarà d’un’altra gent…
Ma cume fèm pietâ, quanta cicoria,
e quanta vita se porta el vent!
Andèm sensa savè, cantand i gloria,
e a nüm de quèl che serum resta nient.
Franco Loi

Franco Loi-poeta italiano (Genova 1930 – Milano 2021). Nella sua opera poetica ha assunto il dialetto meneghino come il crogiolo di un più complesso espressionismo linguistico, talvolta animato anche di una risentita passione politica, mescolando elementi di varia provenienza, talvolta rielaborati e reinventati per piegarli alle sue esigenze espressive. È autore di numerose raccolte poetiche in cui ha saputo fondere una poesia di ampio respiro narrativo e improvvisi slanci lirici. VitaTrasferitosi a Milano (1937), dopo aver intrapreso diversi lavori a partire dai primi anni Ottanta ha intensificato la sua attività in campo editoriale, divenendo tra l’altro anche un apprezzato critico letterario e collaboratore di riviste e quotidiani. OpereNei suoi testi L. usa un dialetto milanese molto aperto alle contaminazioni, intrecciando voci diverse: dal dialetto milanese della tradizione letteraria al gergo dialettale proletario e sottoproletario non solo milanese, dagli arcaismi ai forestierismi, fino ai neologismi e alle sue personali invenzioni, ottenendo un impasto linguistico di forte originalità espressiva, che spesso si nutre di polemica sociale e talora anche politica. A partire da Stròlegh, uno sguardo penetrante e insieme visionario nel mondo operaio e popolare della Milano anni Quaranta e Cinquanta, cui hanno fatto seguito Teater (1978), in cui come suggerisce il titolo tutto si svolge come su una scena teatrale, L’angel, una sorta di romanzo in versi in cui compaiono anche passi in genovese, emiliano e romanesco, L’aria (1981), Bach (1986), Liber (1988), la sua ricerca ha recuperato con uguale efficacia e originalità l’epica popolare e l’intimismo lirico. Ha realizzato ancora: Memoria (1991), Umber (1992), Arbur (1994), Amur del temp (1999), Isman (2002), Aquabella (2004). Nel 2005 ha pubblicato Aria de la memoria, un’antologia delle poesie scritte tra il 1973 e il 2002. Con Voci d’osteria (2007) ha messo in forma poetica il copioso materiale raccolto nel tempo ascoltando le voci della gente comune, ovunque ci fossero ancora persone in grado di parlare in dialetto milanese, mezzo espressivo da sempre ritenuto straordinariamente capace di cogliere il carattere degli uomini e il senso della vita. Autore anche di una raccolta di saggi (Diario breve, 1995) e di racconti (L’ampiezza del cielo, 2001), nel 2010 ne è stata edita l’autobiografia Da bambino il cielo, a cura di M. Raimondi; tra le sue opere più recenti occorre citare, entrambe del 2012, la raccolta poetica I niül e il testo La luce della poesia, articolata riflessione sull’essenza di questo genere letterario, e Voci d’un vecchio cantare (2017). [ Enciclopedia Treccani]