“Sera ultima e serena” di Juan Ramòn Jiménez


Il tema della sera ha sollecitato moltissimi poeti a esprimere le più nascoste esigenze dello sprito. Basti ricordare tutta l’età romantica, così colloquiale con la distesa pace della natura serotina o notturna. Anche nel poeta spagnolo Juan Ramòn Jiménez il sentimento della sera si colloca idealmente nella prospettiva del tramonto della vita. Nuova è invece la forte tensione volitiva che l’irrevocabile labilità delle cose suscita nel suo cuore: l’affermazione, cioè, di un anelito di immortalità che è, nello stesso tempo, una richiesta di eternità del creato.

Sera ultima e serena

breve quanto una vita,

fine d’ogni cosa amata;

io voglio essere eterno!

  • Foglie trafiggendo,

il sole, già di rame,a arriva

a ferirmi il cuore.

Io voglio essere eterno!-

Bellezza che io ho scorto

non cancellarti mai più!

Perché tu sia eterna,

io voglio essere eterno!

Juan Ramòn Jiménez

da Poesia spagnola del Novecento, a cura di O. Macrì, ed. Guanda

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Juan Ramòn Jiménez, Poeta spagnolo (Moguer, Huelva, 1881 – San Juan, Puerto Rico, 1958). Autore dalla limpida semplicità espressiva vicina al simbolismo, nelle sue poesie associa a una raffinata ricerca lessicale  una crescente ansia metafisica che lo porta a una posizione sempre più contemplativa. Tra le sue raccolte: Platero y yo (1914; edizione completa 1917) e Animal de fondo (1949).Premio Nobel per la letteratura (1956). Andaluso d’origine e per sensibilità, dopo aver compiuto i suoi primi studî a Siviglia, si trasferì a Madrid, dove non prese parte attiva alla vita letteraria del momento, anche se questo era particolarmente fervido e inquieto. Preferì rimanere appartato, dedicandosi a numerose letture e pubblicando le sue liriche in periodici di breve vita. I viaggi compiuti in Francia, in Svizzera e in Italia ampliarono il suo panorama spirituale e letterario; in un viaggio negli Stati Uniti sposò Zenobia Camprubí che fu anche la sua collaboratrice più vicina. Dopo la guerra civile, andò prima a Puerto Rico, poi a Cuba e a Washington in una inquieta ricerca di pace spirituale e di raccoglimento. Nel 1956 fu insignito del premio Nobel. Dopo le prime opere, Ninfeas e Almas de violetas pubblicate nel 1900, quando era molto amico di Valle Inclán, Rubén Darío e Villaespesa, J. affinerà costantemente il suo linguaggio, nella ricerca di una limpida semplicità espressiva, in tentativi più complessi e raffinati, come in Poemas mágicos y dolientes (1911) in cui è vivo il ricordo dei simbolisti che egli vedeva collegati idealmente ai mistici spagnoli e alla poesia arabo-andalusa. Si generano anche immagini che in moduli quasi impressionistici rendono le sensazioni suscitate nel poeta dalla contemplazione della natura. Ma l’amore per la parola si affina e si trasforma in un’ansia formale capace di percepire ogni più piccola vibrazione della sua spiritualità. In Diario de un poeta recién casado (1916) questa tendenza appare già manifesta, mentre una crescente ansia metafisica porta il poeta a una posizione sempre più contemplativa e schiva di rapporti umani. Fino al già citato Animal de fondo  la sua opera si fa sempre più intellettualistica ed evanescente. Lo stesso J., preoccupato sovente di illustrare a sé stesso ancor più che agli altri la sua poetica, ebbe a dire che si deve accedere al segreto più profondo e difficile per mezzo di una via chiara e retta, alludendo così all’essenzialità della sua lirica e all’insoddisfazione che essa crea in chi cerca di impossessarsi della sua più riposta intimità. È questo anche il limite maggiore della produzione di J. che nel suo accentuato intellettualismo, nel suo tentativo di spiegarsi metafisicamente e nel suo distacco dalle passioni umane diventa una forma che, pur nella sua bellezza, appare inconsistente. Oltre quelle citate si ricordano, tra le sue opere: Baladas de primavera (1910); Sonetos espirituales (1917); Eternidades (1918); Segunda antología poética (18981918); Piedra y cielo (1919); Belleza (1923); Poesía en prosa y verso (190232); Presente (1934); Canción (1936); La estación total (1946); La corriente infinita (1961). [Enciclopedia Treccani]