Leggendo “Confessione haitiana di un cooperante perduto” e “Lettera mai data alla mia sorella lontana” di Carlo Crakx, (pseudonimo), veneto della provincia di Treviso, laureato in psicologia e da molti anni impegnato nella cooperazione internazionale, non posso esimermi dall’esprimere un giudizio sincero sui suoi componimenti, molto pregnanti dal punto di vista della testimonianza sul campo. Una querelle dialettica ha animato e, soprattutto oggigiorno, continua ad animare il dibattito culturale sul significato di “poesia” e di “prosa”.
Esiste una linea di demarcazione, in questi ultimi tempi indubbiamente più sfumata, tra questi due generi letterari entrambi nobilissimi, ciascuno dei quali ha lasciato fulgidi esiti artistici nella letteratura occidentale e non solo. Il confine, nondimeno, è andato via via stemperandosi: non è più così netto. Tale tendenza, naturalmente, è stata facilitata dall’avvento del verso libero e dalla conseguente rinuncia alle regole della metrica.
Al di qua e al di là dell’Atlantico si è diffusa la poesia “prosastica”, grazie all’opera del cantore d’America, Walt Whitman, il cui verso libero pare ampliarsi in un anelito all’infinito, in “Foglie d’erba” e nelle poesie della silloge “Antologia di Spoon River”, di Edgar Lee Masters.
Anche in Italia, a partire dalla seconda metà del XIX secolo, non sono mancati esempi di poesia “prosastica”, come nell’opera di Igino Ugo Tarchetti e in Vittorio Betteloni. Nel primo Novecento, Gozzano, per reazione al Dannunzianesimo imperante, volutamente cercherà nei “Colloqui” e nella “Via del rifugio” un’espressione dal tono dimesso e discorsivo.
Nella seconda del secolo, anche i versi di Cesare Pavese, in “Lavorare stanca”, avranno un carattere narrativo.
In questa zona grigia, in questa sorta di brumosa terra di nessuno, prosa “poetica” e poesia “prosastica” si confondono.
Qual è dunque la “conditio sine qua non” per stabilire cosa sia e cosa debba essere la poesia?
È solo e semplicemente una questione di forma, come andare ” a capo” e racchiudere i pensieri in “strofe”, oppure e qualcosa di più, di altro?
Le testimonianza di vita, affidate alla penna e alla pagina di Carlo Crakx, sono pervase certamente da un lirismo di fondo; vibra nelle parole una tensione spirituale. È palpabile la profonda sensibilità, che si sublima nell’uso di vocabili poetici e nello sviluppo del pensiero;nel ricorso a immagini potenti e originali, che esaltano il contenuto e l’essenzialità del messaggio ai lettori.
Tuttavia, tali scritti presentano una forma peculiare diaristica, di prosa epistolare, lontano dal pensiero conciso, folgorante della poesia.
E con queste caratteristiche, il risultato, l’esito artistico, sia nello stile sia nel contenuto, è decisamente rimarchevole.
Antonio Teni
“Confessione haitiana di un cooperante perduto“
Amore mio, le luci si negano quotidianamente su questa terra delirante,
buia di sole e blindata dei nostri privilegi meno voluti,
e fuori dalla nostra prigione asservita, oltre le inondazioni ed i fumi,
il cielo protesta, la terra scuote ed i proiettili esplodono,
mentre la polvere del centro America ancora mi inchioda al tavolo,
vicino o lontano, poco cambia, sempre di schiavitù si tratta.
Lo sappiamo tutti, lo so io e lo sai anche te, ne abbiamo sempre parlato.
Questo popolo sanguina di bruciore e ingiustizia, negro e violato.
Non si può che provare inutile e profonda compassione per loro,
e poi scappare come tutti, a casa, o in un posto migliore.
Ad esempio, quanti di loro disgraziati sono scomparsi sopra la terra oggi
Per affanno ed endemica miseria,
senza uno scroscio, senza un battesimo e senza una sepoltura.
E al contrario, quanti di loro testardi si sono impiccati in un conflitto oggi
per orgoglio e retaggio rivoluzionario,
senza una ragione, senza un compromesso e senza un vantaggio.
Eppure, quanto siamo nudi e afflitti, senza riti e superstizioni.
Ebbene è chiaramente vile il nostro coraggio,
questa missione remota senza salvezza,
vittima anch’essa del disprezzo e dell’ammirazione:
da noi, a casa, riecheggiano il falso e la farsa,
percezioni provinciali che si nutrono di superficiali credenze e sperequazioni,
rabbiose per i primi, speranzose per i secondi,
in realtà vacue e stereotipate allo stesso modo.
Come nelle peggiori rappresentazioni,
violenti o salariati, sono tutti avari e corrotti qui,
sia i condannati senza condanna, che gli assolti senza assoluzione.
Tutti pieni di rabbioso egoismo e prepotenza,
che sia per sopravvivere nell’opulenza o nell’indigenza.
Gli ultimi innocenti di questa terra,
non hanno mai avuto un avvenire al di fuori del presente,
e resistere al presente è quanto gli basta.
Certo sbagliano gli incompetenti, prima degli educati,
e noi, alieni, insieme a loro, i locali,
pervasi entrambi da supponenza
e da un etnocentrismo inconsapevole,
opposto e discordante solo per circostanze fatali.
Così si flettono i secoli pregni di nuove forme di sfruttamento
e nel nostro cortile si bagna il mattino,
un mattino sudato che della mia insonnia lunare si dispiace.
Mentre tu dormi, il crepuscolo per me è un lungo crampo vuoto.
Un calvario che mi condanna all’ennesimo doloroso soliloquio,
a questa prossima giornata piena di pentimento e sensi di colpa.
Ma sarebbe sbagliato cercare l’abominio altrove
quando rassegno la felicità in un abisso
nascosta sotto un comodino sudicio
dentro una bottiglietta di vetro e una busta di plastica.
Amore mio, chissà ancora per quanto mi perdonerai per tutto questo.
Amore mio, dove mi hai inseguito assiduamente?!
Senza grilli e senza ambizione, ceca e innamorata,
in questo purgatorio a cui non sei votata,
pieno di lacci, ragni e zanzare.
Amore mio, per quanto ancora sopporterai la mia silente e indolente,
incapacità di cambiare!
Ma amore mio, io ti amo pur nel mio odioso tacere.
Di un amore senza echi e senza indugi.
Di un amore sedimentato, apolitico e allergico.
Di un amore muto, asciutto e indispensabile.
Ma se tu vedessi la guerra che sto perdendo,
se sapessi quale maledizione mi assedia,
quale sommerso flagello mi infetta,
forse mi rinnegheresti, e io perduto
sprofonderei di vergogna e di infanzia.
Il riflesso della bestia mi rende ostile e scostante,
la mia dannazione produce un ricadere costante ed ostinato.
Sappi, che sono un vigliacco anche per questo,
E solo quando sono in preda alla paura
ti chiedo perdono e prego il padre nostro.
Soccorretemi entrambi tra i cieli e liberatemi dal male
perché il mare nero ci sta risucchiando senza tregua.
Ed in questa cantilena, in questo gorgoglio prolisso
devoto e ripetutamente segreto
amore mio, ti confesso, sono un furfante ed un escluso
perché in realtà vorrei solo dormire nell’oblio,
dormire e ascoltare la pioggia, come una pace ancestrale,
e questo infondo mi basterebbe, mi basterebbe sentire.

LETTERA MAI DATA ALLA MIA SORELLA LONTANA
Cara sorelle non so perché ma ieri sera ripensavo a quella vacanza in Puglia con mamma e papa.
Ho dei flash vividi di quei giorni, e nei miei ricordi è stata la vacanza più bella della mia vita, piena di gioia e irripetibile.
Forse perché è passata nella mia infanzia quando eravamo ancora una famiglia unita, prima che le cose tra tutti noi si sciupassero anno dopo anno nelle tensioni e nell’inquietudine.
A volte quei ricordi li confondo con quelli di altre vacanze successive, ma ci sono dei momenti con sono impressi nitidissimi nella mia memoria.
Non saprei dire quando è stata, io mi vedo piccolissimo e tu, poco più di una bambina, poco meno di una ragazzina.
Ricordo quel campeggio pieno di cose divertenti, e le tante emozioni.
Ricordo il primo giorno, quando appena arrivati, all’ingresso del parco giochi un bambino mi scaccio in malo modo mentre stavo entrando.
E poi, rivolto ad un altro bambino che gli chiedeva spiegazioni per quella improvvisa aggressione, gli disse “che io ero un signore del nord, che io non potevo stare li”.
Che male mi face quel bambino!
E quanto ci dice sul pregiudizio quella frase gettatami addosso come una sassata con incoscienza disarmante.
Vittima incolpevole quel bambino che ripeteva ingenuamente delle parole stupide senza sapere quanto quell’odio superficiale che rappresentavano potesse ferire.
E per settimane, dentro di me, continuai a rimuginare, a sentirmi un debole per non aver reagito, per essere rimasto in silenzio.
Ma poi, mi tolsi quel sassolino dalla scarpa, e poco prima di partire, forse il giorno stesso, su quel bambino presi la mia rivincita.
Gli vomitai in faccia quello che avevo covato per tutte la vacanza, e senza esitazioni rivendicai il mio diritto a poter giocare in quel parco.
Rimase paralizzato, non si aspettava una mia risposta tanto assertiva. Quella volta, dentro di me, riuscii a sistemare tutto, a risolvere la cosa.
Ma di quei giorni ho ricordi anche di te, e dei tuoi primi tumulti adolescenziali. Forse avevi anche un ragazzo, ma non ne sono più sicuro.
Mi ricordo invece bene una tua ribellione durante un pranzo e quella sera che papa venne a cercarti in spiaggia, che eri uscita, che chissà cosa stavi facendo e con chi.
Non ho immagini di mamma, di cosa disse, cosa fece, ma sono sicuro che in quella sera, furono d’accordo, e furono complici e compagni.
C’era una piccola barca da pesca, a remi, su quella spiaggia. tu c’eri seduta sopra, con una tua amica, con la tua amica.
Mi ricordo che li ti trovammo, dopo aver camminato nervosamente a destra e a manca, avanti e indietro per quel campeggio e per quella spiaggia.
A pensarci meglio, forse non era una barca, la memoria in fondo deforma le immagini per trattiene ciò che vuole che noi sentiamo.
Ad ogni modo non capivo bene il motivo di tutta quella agitazione, ma come un cagnolino fedele, seguivo il papa in quel delirio, senza oppormi, senza chiedere, ubbidiente.
Chissà poi, se le cose, sono andate veramente cosi, chissà invece a te cosa è rimasto dentro.
A pensarci ora, provo a momenti, un tiepido divertimento, per quella scena di gelosia genitoriale, anni trenta, del tutto anacronistica ed eccessiva.
Ma provo anche una profonda tristezza, per quella mancanza di fiducia, per quella violazione, autoritaria e irrazionale, della tua libertà, anche di sbagliare, anche di cadere, anche di rimanere colpita.
Stringere troppo, per affetto, per proteggere, finisce per soffocare, per indebolire.
Infondo, è questo carico che per molto, troppo tempo, ho accusato.
Per liberarmene ho agito ostinatamente al contrario barricandomi nel mutismo.
Quel contrasto è un muro di gomma che respinge il dolore e la delusione, ma che fa rimbalzare ancora più lontano l’amore e gli affetti.
Ed è un peccato che noi non ci siamo mai raccontati, quasi che da secoli non ci fossimo più conosciuti.
E quando ci guardo da fuori mi pare come se entrambi vivessimo maniacalmente le nostre vite.
Le vivessimo con analogo immotivato tormento, seppur diligente e borghese il tuo, seppur esagerato e caotico il mio.
Ci affanniamo in questa foga quotidiana, egoista, insensata, sfiancante.
Sempre a correre dietro alle nostre insoddisfazioni, sempre a sentirci un passo indietro ai nostri ideali, alle nostre pretese, ai nostri obblighi.
Cosi dobbiamo sforzarci per scacciare quegli spiriti, e respirare e goderci qualche momento di pace, di tregua da questi sensi di colpa ancestrali che sembrano aspettarci sempre in agguato.
Ma è vero che con il tempo si impara a domarli, ma non a vincerli.
E le nostre vite si sono sempre incrociate ma di rado appartenute, percorse a ritmo diverso su due binari paralleli ma non allineati.
Con una cadenza metodica dopo l’infanzia i nostri cammini si sono alternati per incontrarsi giusto il tempo di un saluto in stazione, diventato sempre più fugace, sempre più anonimo, sempre più distante.
Eppure io ho presente di te, di quando da piccolo, in macchina, tu prendevi una specie di agendina e fingevi di leggermi delle storie che ti stavi inventando al momento.
Che cercavi di insegarmi le cose che ero refrattario ad imparare, e per un po’ sei stata l’unica che si è presa cura di me e della mia educazione.
Invece, di me ricordo, quando alle elementari, appoggiavo la fronte al finestrino dello scuolabus, che mi faceva vibrare la testa.
Pensavo al costume da ninja di Francesco Cavan.
Fantasticavo senza alcuna invidia.
Sognavo di essere un ninja immaginario capace di mosse prodigiose, lanciando stelline dalle lame invisibili e roteando con maestria il nunchaku contro nemici malvagi.
Così mi perdevo in quel mondo di vaneggi, assorbito da quel gioco favoloso e avvincente, pieno di azione ed avventura, fino ad arrivare a casa.
E la nostra casa era piena di quei fogli di carta che riempivi di disegni di donne e di vestiti.
Chissà cosa è rimasto di tutto questo. Chissà se sia veramente possibile di stare al mondo senza sognare.
Carlo Crakx
