“L’EQUILIBRIO DI BEN-ESSERE”: FAMIGLIE DISFUNZIONALI – a cura di CIPRIANO GENTILINO

rubrica di Cipriano GentilinoLa famiglia, in una prospettiva sociopsicologica, è un concetto complesso che si estrinseca in modelli strutturali e relazionali rilativi ai mutamenti sociali e culturali.
Storicamente transita dalla famiglia patriarcale alla famiglia nucleare e alle c.d. nuove famiglie mono-genitoriali, alle coppie dello stesso sesso, alle famiglie queer.
Cambiamenti che non modificano né la centralità della famiglia nella dinamica delle diverse culture sociali né l’importanza della comunicazione, da intra a extra familiare e viceversa, nella analisi delle possibili disfunzioni.
Cambiamenti e centralità che, con la loro complessa interazione, acquistano una particolare importanza se correlati all’ attuale significativo aumento di interventi per assistenza psicologica (ansia, depressione, disturbi borderline) a partire dalle restrizioni delle relazioni sociali durante il periodo Covid.
La convivenza obbligata in uno spazio-tempo definito e non modificabile ha rappresentato infatti quello che potremmo chiamare uno stress-test intra-familiare che ha favorito l’emergenza di disfunzioni relazionali e psicologiche che prima trovavano le possibili modalità di risoluzione in spazio-tempo più aperti e modificabili e quindi più flessibili.
Disfunzioni che, piuttosto che una eccezione, sono la norma, in quelle che si suole definire famiglie disfunzionali, caratterizzate dalla incapacità di adeguarsi ai cambiamenti e quindi di essere flessibili, mantenendo il rispetto degli individui e delle regole gruppali in una atmosfera realmente empatica.
Ambienti familiari conflittuali e dis-comunicanti che possono essere cause o concause di disturbi psicologici, in modo particolare, per bambini e adolescenti.
Ma quali sono le cause psicologiche e sociologiche alla base della dis-funzionalità?
Tra le cause psicologiche individuali emergono i traumi infantili dei genitori che possono, inconsapevolmente, perpetuare un ciclo di abuso o di non attenzione ai bisogni dei figli e in generale una incapacità a stabilire legami affettivi sani.
Ma non secondari sono sia disturbi psichici come condotte borderline e narcisistiche con imprevedibilità, aggressività e manipolazione sia disturbi legati alle dipendenze da droghe e gioco d’azzardo dove la dose diventa primaria rispetto ai bisogni degli altri.
Certo non mancano le cause sociali.
Tra queste, spesso non presa in sufficiente considerazione, c’è una aspettativa del gruppo familiare troppo rigida con conseguenti giudizi, critiche, conseguente depressione e svalutazione del sé ma fondamentale resta la tensione creata da disoccupazione e povertà che portano ad isolamento sociale in assenza o non sufficienza di una rete di protezione sociale.
Dalla instabilità relazionale allo stress sociale quindi che, come si può facilmente immaginare, costituiscono le basi disarmoniche di una rete relazionale che non può dare quel livello di sicurezza e serenità presupposto per una relazione familiare empaticamente costruttiva.
Non può senza un auto-aiuto consapevole o senza presa in carico psicologica.
I meccanismi psico-comportamentali che, anche inconsciamente, si attivano infatti sono in grado di auto-attivarsi patologicamente o come, si usa dire attualmente, in maniera tossica.
Vediamone alcuni comuni a disfunzionalità con cause ed esiti diversi.
La più semplice è la triangolazione nella quale due membri della stessa famiglia si alleano contro un terzo creando tensioni attraverso una costante manipolazione.
Le alleanze, inoltre, si modificano e tutta la comunicazione può diventare triangolata con la conseguenza di ritrovarsi tutti invischiati nel magma della con-fusione perdendo lo spazio individuale e rischiando, quindi, episodi di fuga o di aggressività.
Altro comune meccanismo è l’attivare un blocco comunicazionale verso un membro della famiglia causando una condizione di muro contro muro quotidiano molto stressante ed emotivamente coinvolgente e, ancora una volta, in grado di determinare gravi esiti in aggressività fisica per esasperazione e spinta ad una azione risolutiva finale.
Non si può non fare cenno anche alle situazioni nelle quali si mette in discussione la salute mentale di un familiare e la sua stessa percezione della realtà.
Come si può vedere sono schemi semplici ma al tempo stesso particolarmente tossici che hanno come conseguenza atmosfere familiari poco armoniche che transitano dalla eccessiva inter-dipendenza soffocante alle relazioni tanto aperte da creare uno squilibrio dei sentimenti di appartenenza e dei relativi ruoli .
Appartenenza, ruoli e rispetto che sono però una valida protezione verso gli abusi siano essi verbali, emotivi o fisici.
E’ evidente quindi che riconoscere questi segni e questi schemi “tossici” è importante perché è il primo passo verso una consapevolezza di disturbo e richiesta di aiuto psicologico e verso una psicoterapia individuale o familiare.
In termini di auto-aiuto e quindi di consigli per un percorso di benessere vanno invece presi in considerazione la determinazione dei confini personali e dei confini sani, favorenti cioè l’interazione familiare e la fluidificazione emotiva e affettiva.
Stabilire con sé stessi e con gli altri componenti della famiglia un confine sano è infatti fondamentale per proteggersi e affermare la propria identità anche se non sempre è facile e può necessitare, nelle fasi iniziali, di un costante impegno e di un costante adeguamento.
Fondamentali in tal senso sono imparare a dire no e il mantenimento del rispetto verso gli altri oltre che ovviamente verso sé stessi.
La vera insidia, per la quale è meglio ricorrere ad un atto esterno, è il sentirsi egoisti con il conseguente senso di colpa.
Ma la attenzione a chiedere il possibile, pur mantenendo la direzione del viaggio intrapreso, e la costante ricerca di una empatia rispettosa sono i veri punti cardini ai quali costantemente riferirsi oltre a quella com-passione verso l’altro che diventa così obiettivo ed esempio.

Cipriano Gentilino

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“Février e gli orfanelli” – di Simonetta Ronco– “Letture indipendenti – Segnalazioni”

Segnaliamo oggi il nuovo romanzo giallo dell’autrice genovese Simonetta Ronco, Février e gli orfanelli, edito da La Bussola Edizioni.

Février copertinaFévrier e gli orfanelli
  di Simonetta Ronco

“Février e gli orfanelli” è il quinto romanzo di Simonetta Ronco in cui vede protagonista il pianista investigatore francese Audemars Février.
Il lettore si ritrova nuovamente a Blessy, il paese dove l’autrice aveva ambientato il primo episodio della “Saga di Février”, “Ritorno a Blessy”, ma questa volta l’atmosfera è meno bucolica, più cupa e inquietante, quasi gotica. La trama cattura l’attenzione sin dalle prime pagine, trascinandoci in una rete di suspense e mistero che avvince fino alla conclusione. La scrittura fluida e impressionista di Ronco rende la lettura di questo romanzo un’esperienza davvero coinvolgente e appagante.

La trama di Février e gli orfanelli
 Nell’ottobre del 1925 il Maestro torna a Blessy, perché richiamato da padre Benjamin.
Costui gli rivela che dalle ricerche risulta che nel periodo in cui all’orfanotrofio di Pomarie fu lasciato il figlio di Adèle Robinot, furono accolti due neonati: lui e Gaston Roblet.
Chi è dunque il duca di Saint Alary? E chi ha ucciso la moglie del Dottor Brouillard?
E che fine ha fatto Lara Fiodorova, evasa dal carcere, sulle cui tracce è tutta la polizia di Parigi?
Février si muove in un ambiente conosciuto ma minaccioso, tra leggende gotiche e indagini serrate, bersaglio di una caccia spietata che porta necessariamente alla morte.
Simonetta Ronco

Simonetta Ronco, biografia
Simonetta Ronco, nata a Genova, è docente universitaria, giornalista e scrittrice. Il padre, Antonino Ronco, giornalista e storico e la madre scrittrice di racconti per bambini premiata anche all’Andersen, le inculcano la passione per la cultura in generale e per la storia e la letteratura in particolare. Dal 2002 al 2008 collabora con la Terza Pagina del Secolo XIX e successivamente con alcuni periodici culturali come Satura, Resine, Xenia, Il Porticciolo, sempre più impegnata su temi femminili, soprattutto biografie e romanzi storici. Nel 2005 esce la prima biografia da lei scritta, sulla vita di Cristina di Borbone, prima Madama Reale, che viene anche premiata con l’Anguillarino d’Argento. Seguono altre biografie di notevole rilievo sociale, come quella di Giulia Colbert di Barolo che viene anche presentata presso l’Ateneo Genovese. Successivamente pubblica le biografie di Giuditta Bellerio Sidoli, Antonietta Costa Galera, Giuseppe Mazzini, Costantino Nigra, Ilaria del Carretto. La Ronco pubblica, inoltre numerosi romanzi e racconti storici, che vedono sempre donne come protagoniste. Nel 2018 la Ronco ha dato vita a una collana editoriale, Mnemosine – Donne nell’ombra che si propone di pubblicare biografie di donne poco conosciute o dimenticate e saggi su tematiche femminili. L’ultimo volume della Collana, edito con De Ferrari editore (dal titolo “Protagoniste Genovesi”) è dedicato alle 14 donne rappresentate nella Sala delle Donne a Palazzo Ducale. Ha creato i personaggi di Audémars Février, Dario Barresi e Luca Traverso, protagonisti di gialli seriali.
I precedenti titoli della saga di Février:

  • Ritorno a Blessy
  • Février e l’enigma degli uccelli
  • Février e un caso di coscienza
  • Février e la villa dei misteri

Link per l’acquisto: https://www.labussolaedizioni.it/it/pubblicazioni/fevrier-e-gli-orfanelli-simonetta-ronco-9791254744819.html

Letture indipendenti

 

 

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Pubblicata la raccolta dedicata alla poesia dal titolo “21 marzo: la poesia è in fiore” – supplemento al n.3 della Rivista Cultura Oltre di marzo

SETTIMANA DELLA POESIA 2024 21 Marzo - Settimana della Poesia - Supplemento al n.3 della Rivista Cultura Oltre - Marzo 20249

Per il terzo anno consecutivo, prende il via un’iniziativa promossa dalla rivista Cultura Oltre per celebrare la Giornata Mondiale della Poesia, che ricorre il 21 marzo, in coincidenza con l’inizio della Primavera, istituita dalla XXX Sessione della Conferenza generale Unesco nel 1999 e celebrata per la prima volta il 21 marzo dell’anno successivo. La ricorrenza affida all’espressione poetica la funzione di promuovere sempre più la comunicazione e la condivisione, grazie anche alla sua universalità e pluralità che diventano strumento di dialogo.  La nostra rivista vuole dare a tutti l’opportunità di accostarsi alla bellezza dei versi poetici con semplicità ed immediatezza, in un momento storico critico e particolarmente doloroso, incoraggiando a scrivere e apprezzare il ruolo della poesia nello sviluppo dell’umanità. «Perché la poesia, non è vero, ha questo compito sublime: di prendere tutto il dolore che ci spumeggia e ci romba nell’anima e di placarlo, di trasfigurarlo nella suprema calma dell’arte, così come sfociano i fiumi nella vastità celeste del mare.» scrive Antonia Pozzi.  Ispirata da queste riflessioni, considero sempre più importante aprire una finestra sul mondo poetico e devo riconoscere che mi sono lieta per l’intensa partecipazione di poeti che, attraverso le loro opere, mi hanno ulteriormente convinta di quanto la poesia sia ancora viva, come sottolinea Palazzeschi: «Muoiono i poeti/ma non muore la poesia/ perché la poesia è infinita/ come la vita». La poesia offre una rivelazione di sentimenti perché affida alla parola il compito di far rivivere suggestioni ed emozioni. Questo fondamentalmente è ciò che mi spinge a dare voce ai diversi di poeti che si sono avventurati, con le loro pregevoli composizioni, in questo percorso sulla celebrazione della Giornata della Poesia e a cui va il mio ringraziamento e la mia stima. Le liriche pervenute nel mese di marzo sono raccolte in questo volumetto dal titolo: “21 marzo: la Poesia è in fiore”, che sarà supplemento alla Rivista cartacea Cultura Oltre n.3 del mese di marzo 2024. Buona poesia a tutti!     
Maria Rosaria Teni

21 marzo: “La poesia è in fiore”

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“Corde di lino” di Cipriano Gentilino

Nella lirica emerge  la raffinata eleganza e il suo ricco simbolismo. La metaforica interpretazione di gesti antichi, sullo sfondo di una memoria che sfuma contorni di un tempo che scorre ineluttabilmente, porta a riflettere sulla ciclicità della vita e sull’eterna lotta tra luce e oscurità. Nella chiusa,  straordinaria la funzione data alla Poesia, in quanto “luce” sulle ombre di notti oscure. [Maria Rosaria Teni]

Abbiamo annodato corde di lino 

e iuta quando il ricordo del nodo 

sciolto al grembiule delle madri 

era gioco d’amore nel sospiro 

lieto del rincorrersi capricciosi.

Ma il tempo della memoria ci è 

sfumato nell’oppio del perdono

consueto ai rivoli maldestri della 

speranza in cieli di stelle già morte.

Eppure, corde afone tentano ancora 

nodi ai lampioni spenti di periferia 

per ritentarci sospiri di funamboli

per un verso di poesia 

nelle notti senza ronda.

Cipriano Gentilino

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“La ciocca bianca” di Ada Negri

De’ tuoi bianchi capelli, sì leggeri

alla carezza e pur sì folti, in uno

scrigno una ciocca serbo. Erano i miei

scuri come la notte, allor che al capo

tuo la recisi. Ed oggi, te cercando

in quella ciocca, sola cosa viva

che di te mi rimanga, io mi domando

se recisa non l’ho dalle mie tempie.

E se mi guardo entro lo specchio, e in esso

mi smarrisco, non me, ma te ravviso,

o Madre: tua questa marmorea fronte

piena di tempo, e immersa in una luce

ch’è già ormai d’altra terra e d’altro cielo.

Ada Negri

Senza titolo

ph Alessandra Margiotta

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Primo Maggio: Festa dei Lavoratori

Io credo nel popolo italiano.
È un popolo generoso, laborioso,
non chiede che lavoro, una casa
e di poter curare la salute dei suoi cari.
Non chiede quindi il paradiso in terra.
Chiede quello che dovrebbe avere ogni popolo.”
(Sandro Pertini)

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Il quarto stato (1898 – 1901) di Giuseppe Pellizza da Volpedo

“Domande di un lettore operaio” di Bertolt Brecht

Tebe dalle Sette Porte, chi la costruì?
Ci sono i nomi dei re, dentro i libri.
Son stati i re a strascicarli, quei blocchi di pietra?
Babilonia, distrutta tante volte,
chi altrettante la riedificò? In quai case,
·di Lima lucente d’oro abitavano i costruttori?
Dove andarono, la sera che fu terminata la Grande Muraglia,
i muratori? Roma la grande
è piena d’archi di trionfo. Su chi
trionfarono i Cesari?
La celebrata Bisanzio
aveva solo palazzi per i suoi abitanti?

Anche nella favolosa Atlantide
la notte che il mare li inghiottì, affogavano urlando
aiuto ai loro schiavi.
Il giovane Alessandro conquistò l’India.
Da solo?
Cesare sconfisse i galli.
Non aveva con sé nemmeno un cuoco?
Filippo di Spagna· pianse, quando la flotta
gli fu affondata. Nessun altro pianse?
Federico II vinse la guerra dei Sette Anni. Chi,
oltre a lui, l’ha vinta?
Una vittoria ogni pagina.
Chi cucinò la cena della vittoria?
Ogni dieci anni un grand’uomo.
Chi ne pagò le spese?
Quante vicende,
tante domande.

Se si escludono gli istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare, l’amare il proprio lavoro (che purtroppo è privilegio di pochi) costituisce la miglior approssimazione concreta alla felicità: ma questa è una verità che non molti conoscono.” (Primo Levi, dal romanzo “La chiave a stella”)

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Per ottanta centesimi! (1895-1897) di Angelo Morbelli

Lavoro di donna, di Maya Angelou

Ho dei bambini cui badare
vestiti da rattoppare
pavimenti da lavare
cibo da comprare
poi, il pollo da friggere
il bambino da asciugare
un reggimento da sfamare
il giardino da curare
ho camicie da stirare
i bimbetti da vestire
la canna da tagliare
e questa baracca da ripulire
dare un’occhiata agli ammalati
e raccogliere cotone.
Risplendi su di me, sole
bagnami, pioggia
posatevi dolcemente, gocce di rugiada
e rinfrescate ancora questa fronte.
Tempesta, spazzami via di qui
con una raffica di vento
lasciami fluttuare nel cielo
affinché possa riposare.
Cadete morbidi, fiocchi di neve
copritemi di bianco
freddi baci ghiacciati
lasciatemi riposare questa notte
Sole, pioggia, curva del cielo
montagne, oceani, foglie e pietre
bagliori di stelle, barlume di luna:
siete tutto quello che io posso dire mio.

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“Prima dell’approdo” di Lucio Zaniboni – recensione a cura di Antonio Spagnuolo

Collana letteraria “I LIBRI DI CULTURA OLTRE”

Lucio Zaniboni: “Prima dell’approdo”-Ed. Cultura Oltre 2023-pagg. 216

COPERTINA VOLUME pag.1Pubblichiamo oggi l’eccellente recensione a firma di Antonio Spagnuolo: “Il viaggio del poeta ha policromatiche tappe che lungo il cammino hanno segnato i migliori bagliori di una ricerca, che si è distinta per limpidezza ed espansione culturale, per alternanze di stupori e eleganza di scrittura. Mi coinvolge il titolo preciso di questa raccolta di Lucio Zaniboni “Prima dell’approdo”, subodorando la caldissima indicazione che egli vuole proporre. L’ultima boa – ormai abbiamo entrambi novantatré anni – è lì che ci aspetta proprio per traghettarci verso quello che sarà l’ultimo ormeggio, dove presenza e musica sosteranno definitivamente. Simboli, archetipi, miti, memorie, illusioni, sospensioni, stornelli, hanno in Zaniboni quella compiutezza stilistica e quella consapevolezza esistenziale che incidono nelle affinità intellettuali, per quell’onnivoro segno che riesce a sottolineare l’adeguata distanza dal rinvio.

“Vale, mille volte vale/ l’attimo sospeso. / Ancora una volta le parole sole/ povere e disadorne a significare.” chiarissima dichiarazione per considerare quel punto di riferimento che induce a concludere quanto vago sia lo scorrere del tempo, e quanto necessaria appaia l’indagine che soltanto la parola poetica può evidenziare.
La vita – egli scrive – è una navigazione ora in acque tranquille, ora in procellose onde. Ormai prossimo all’approdo, il libro vuole essere una testimonianza di fede nella poesia che nella vita è stata aspirazione, meta, gioia e travaglio.
Così le “meteore dei desideri” hanno suggellato le vertigini che la quotidianità offre a chi, illuso dal proprio scintillare del sub cosciente, cerca di appropriarsi di quel simbolo che tratteggia le generalità di chi riesce a tastare il polso capace di escludere a priori il martellare del dubbio. Trascorse molte primavere il simbolo riesce ancora a intercettare emozioni, che si avvolgono repentinamente nello spazio svuotato dell’incertezza, dove la presenza di Dio diventa a tratti illusione per quella preparazione che ogni mortale dovrebbe recitare. Il poeta racconta con fotogrammi policromatici, separando foto da foto, marmo da marmo, ricordi da ricordi, dove le parole hanno anche l’accento della preghiera e si incidono sulla pagina con il fuoco del dettato, scavato tra le radici del passato.
Nell’addizione aggiungo giorno a giorno/ e non tiro la retta del totale, sospeso il conto da pagare/ al creditore eterno.” Sono frasi che lasciano pensare rendendo sempre meno fievole il tremore che scuote senza pietà il mondo intero.
Ritirandosi dalla prassi logica dell’uomo qualunque il poeta si avvicina sempre di più all’Essere, ispirandosi al linguaggio della poesia per stilare la dinamica che si dipana dalla temporalità e con la luminosità propria della parola raccoglie la rivelazione del possibile. Un vero gioco delle meningi che si liberano del raziocinante per evaporare culturalmente tra le sospensioni del sub conscio.
A volte i versi di Lucio Zaniboni stordiscono perché riescono ad esplorare l’essenzialità del mistero con una personale sensibilità, matura e sapiente.

ANTONIO SPAGNUOLO

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“Ligio Zanini, poeta per la libertà” di Silvio Valdevit Lovriha

Pubblichiamo l’intervento scritto da  Silvio Valdevit Lovriha per il 25 Aprile, per ricordare Ligio Zanini,  importante poeta istriano che ha lottato strenuamente  per la libertà. Dentro uno scenario storico del quale si parla tanto anche ai nostri giorni, quasi un secolo dopo. Per l’occasione, il nostro autore ha avuto la fortuna di parlare con la figlia del poeta Ligio, Biancastella, già giornalista della Rai regionale di Trieste.

“Intendo celebrare quest’ anno in modo particolare, tratteggiando, per quanto possibile, la vicenda umana di Ligio Zanini ( n. 1927 in Istria a Rovigno- m. 1993 a Pola ), maestro elementare e massimo poeta istriano.
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Ligio Zanini

Quando negli anni trenta Zanini frequentava le scuole elementari, a Rovigno, cittadina di straordinaria bellezza, cominciavano ad aggirarsi per le calli lugubri caporioni fascisti, manganellatori ben conosciuti, volutamente arroganti e prepotenti, perché fosse ben chiaro che erano finiti i tempi dell’Austria tollerante, rispettosa delle minoranze linguistiche italiane, slovene, croate. Racconta Zanini che a scuola venivano dettati problemi come questo: “Il balilla Luigi possiede nove figurine del nostro amato Duce; il suo camerata Scipio ne ha tre volte di più ed il camerata Cino il doppio di quelle di Scipio. Domanda: quante figurine del Duce, che è la nostra Luce, possiedono assieme i tre balilla? “. I maestri e anche i preti democratici e antifascisti erano stati estromessi, sostituiti da persone fidate del regime, assegnati a posti anche di alta responsabilità, pur se ignoranti al massimo. Il padre di Ligio, Sandro Zanini, dovette chiudere la sua bottega di esperto mastro carpentiere per essersi rifiutato di indossare la camicia nera. Fu costretto a vivere in baracche di periferia, a fare grandi sacrifici per mantenere la famiglia.  Altri erano stati costretti a cambiare addirittura il cognome, a italianizzarlo, ad esempio Morelli al posto dell’originario Ukmar. Erano i tempi in cui spadroneggiavano gli “ustascia”, fascisti croati, i quali si macchiarono di brutalità alla pari di quelle dei nazisti. Molto significativo che il nonno di Ligio, mentre da antifascista auspicava la sconfitta del regime fascista e degli invasori tedeschi, contemporaneamente manifestava al nipote le sue preoccupazioni per il dopo, per la politica accentratrice, non democratica di Tito. Riteneva che, in luogo degli interessi popolari, sarebbero stati privilegiati gli interessi di pochi, della ristretta cerchia dei politici, smaniosi del potere, “bramosi solo delle sedie”, come diceva il nonno. Il nostro Ligio Zanini purtroppo sperimentò sulla propria pelle quanto avesse visto giusto il suo avo! Nel 1949, al guastarsi del rapporto tra Tito e Stalin, Ligio respinse le pressanti richieste politiche di schierarsi per Tito, rivendicando il diritto di essere un libero cittadino, di poter pensare con la propria testa. Lui, che era rimasto sulla propria terra, pur stravolto dal grande dramma degli esuli che scappavano per rifugiarsi in Italia, venne così arrestato e confinato nella tremenda isola Goli Otok – Isola Calva, solo pietre, riarsa dal sole. A ventidue anni venne quindi forzatamente separato dalla amata moglie Bianca, che era in attesa di una nuova creatura. Fu costretto, come tanti altri, compresi gli operai comunisti di Monfalcone accorsi a suo tempo a combattere con i partigiani jugoslavi, a spostare senza senso per mesi inutili pesanti massi di roccia, mal nutrito, ridotto a pelle e ossa, stremato e senza forze, senza avere notizia dei propri familiari. Ritornò a casa, miracolosamente salvo, solo nel 1952, dopo quattro anni di brutale prigionia. Pur persona molto acculturata, dovette accontentarsi di lavori precari, prima di poter di nuovo tornare a fare il suo mestiere di maestro di scuola e di laurearsi in Pedagogia nel 1979. Dopo anni di inaudite tribolazioni finalmente poté soddisfare le sue due grandi passioni: andare a pescare nelle limpide e generose acque delle località istriane e dedicarsi a comporre una valanga di mirabili poesie dialettali.

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Rovigno

Il poeta Ligio Zanini rovignonese ha lottato per la libertà, per non essere omologato, contro le varie tirannie, vecchie e nuove. Il 25 aprile, giornata della Liberazione, deve essere vissuta secondo l’indicazione di Calamandrei e cioè come impegno permanente di difesa e consolidamento della democrazia. Contro ogni forma di tirannia, di accentramento di poteri, di menomazione del concreto ruolo del Parlamento, valorizzando il pluralismo, il confronto delle opinioni, la libertà d’informazione, l’autonomia della magistratura. Ligio Zanini si è battuto per questo modello di società democratica. Mi sembra che il 25 aprile sia la data ideale per continuare a ricordarlo e rendergli gli onori che assolutamente merita.

Silvio Valdevit Lovriha

p.s. Ringrazio la figlia Biacastella Zanini, che gentilmente ha letto per prima queste righe

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Il punto di vista – “Il 25 aprile, dalle Fosse Ardeatine a Gaza, passando per Bucha e il 7 ottobre scorso” – di Mariantonietta Valzano

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lente ingrandimento

“Il punto di vista” di Mariantonietta Valzano

Oggi è la festa della Liberazione dal Nazifascismo, quel periodo di disumanizzazione che nel secolo scorso ne ha caratterizzato la prima metà, oltre a partorire un paio di guerre. Qualcuno storcerà il naso poiché nella prima Guerra Mondiale non vi era né il Partito Fascista né quello nazista. Giusto. Il primo in Italia si consolida dal 1922 e il secondo in Germania dal 1933. Ma…tutti i semi non si possono trovare proprio alla fine della prima Guerra Mondiale? O meglio, tutti i prodromi sono scritti proprio nella sconfitta tedesca e suo conseguente assetto socio-economico di quasi sfruttamento, a cui la nazione tedesca è stata sottoposta dal 1918, poiché, avendo perso, è stata costretta a pagare un “debito di guerra” tanto  elevato da causare  povertà nella massa dei suoi cittadini e, di conseguenza, un buon bacino per futuri odio e rivolte, come si è dimostrato. In Italia si stavano facendo gli italiani, con tanti sacrifici che la maggior parte della popolazione poco comprendeva. Vi era ancora tanta analfabetizzazione e i grandi latifondi non davano molto agio ai contadini mezzadri che costituivano una grande fetta della produzione. Il Paese, a fatica, stava cercando di modernizzarsi, anche se la povertà restava un grande tappeto in cui soccombevano in tanti, molti, moltissimi. Per cui, anche questo costituì un tessuto adatto a odio, rivalse e ricerca di un salvatore. E come è andato a finire? Alle Fosse Ardeatine è andata a finire. Anche qui qualcuno storcerà il naso e ha ragione chi lo farà. Non si devono mai dimenticare le stragi di Marzabotto, Sant’Anna di Stazzema e la guerra civile che ha dilaniato il nostro paese dopo l’8 settembre, quando la resistenza partigiana cercava di liberare i territori, pezzo per pezzo, aiutando gli alleati che avanzavano da sud. In tutto questo periodo si sono consumati delitti e vendette, figli di quel regime che aveva portato milioni di persone nei campi di sterminio, nei campi di battaglia o al cimitero. Allora perché le Fosse Ardeatine? Perché fu uno dei tanti atti di vendetta del Reich ai danni di cittadini inermi, che solo il 25 aprile può pacificare. Le esecuzioni, conseguenti l’attentato di via Rasella, sono una ferita nella storia della città di Roma, ma non solo, perché scava il solco del dolore anche nella storia italiana. L’attentato del 23 marzo ad opera di una cellula del GAP, si prefiggeva un atto plateale che potesse spronare i cittadini romani alla rivolta. Facciamo un passo indietro. Dopo l’armistizio dell’8 settembre del ’43, Roma viene occupata dalle truppe tedesche e viene dichiarata “aperta”, cioé non sarà bombardata poiché è incapace di condurre azioni difensive o offensive, in quanto sguarnita di armamenti. Detto ciò Roma è sguarnita anche di cibo; la gente si arrangia per sopravvivere ed è stremata dalle privazioni e dalla fame, sottoposta a vari rastrellamenti che conducono i cittadini ai campi di lavoro o sterminio. Leggendo  “La storia contesa” di Luca Falsini e “L’ordine é già stato eseguito” di Alessandro Portelli, si potrà avere un quadro più ampio e dettagliato della genesi dell’attentato a una colonna militare tedesca in transito, con l’uccisione di 32 soldati e un ragazzino di 12 anni. Riferisco solo degli accenni riportati nei testi succitati. La reazione tedesca fu immediata sia nella violenza che nella pianificazione. Furono presi i prigionieri politici di via Tasso, ebrei arrestati e detenuti per reati comuni, che all’epoca potevano anche essere furto di generi alimentari. Anche dei militari italiani che erano stati fermati perché come tanti non si erano adeguati al regime dopo l’8 settembre. Inoltre, a tutt’oggi, ci sono 7 vittime, prese e mai identificate dopo la scoperta della grotta della strage. Comunque tutte le vittime furono individuate su liste proposte da esponenti fascisti. Ricordo che vennero tutti caricati su camion, fatti scendere, portati all’interno dell’antro nella roccia sulla via Ardeatina e uccisi. Man mano che aumentavano le vittime, i condannati venivano fatti salire sul monte dei cadaveri prima di essere uccisi. 335 morti! Studenti, insegnanti, muratori, manovali, avvocati, commercianti, carabinieri, ragazzini…gente comune, persone. Secondo i racconti dei testimony, che erano i contadini che lavoravano nei dintorni della zona dell’eccidio, si sono susseguiti camion su camion, che scaricavano persone in fila per il loro “macello”. Appena l’eccidio fu concluso, il giorno dopo l’attentato il 24 marzo, sono apparsi in giro per la città volantini, affissi sui muri: “L’ordine è già stato eseguito”. Questo era ben specificato dopo aver comunicato il perché. Nei vari studi revisionisti che si sono verificati, senza peraltro trovare ragionevolezza, si sono accusati i membri del GAP  autori dell’attentato, di non essersi autodenunciati per evitare il massacro. Ma come è ben spiegato nei testi, non vi sarebbe stato neanche il tempo; i nazisti hanno dato subito seguito alla legge marziale in vigore: 10 persone per ogni tedesco ucciso. Nel tribunale che ha condannato gli autori della strage e i mandanti, si è proceduto alla conta, che non tornava, delle vittime. Si doveva procedere all’esecuzione di 320 persone e non di 335; questo fu preso come atto da condannare in via principale nei confronti di Kappler, ritenendolo colpevole di omicidio non di strage. Lascio cadere il discorso, ma mi voglio soffermare su cosa sta succedendo oggi. In Ucraina sono due anni che si combattono due popoli, e non si possono dimenticare le stragi, torture, stupri di Bucha, che tanto assomigliano al massacro di Srebrenica del luglio 1995 e a quello del 7 ottobre 2023 in Israele. Il punto comune sono le vittime, gente comune, inermi, persone. E ce ne sono altre in altri luoghi di questa guerra mondiale a pezzi, a cui manca  un 25 aprile analogo a quello del 1945. In Italia, forse, viste le discussioni che tornano ad ogni anniversario, manca una pacificazione e una accettazione reale dei conti fatti col passato fascista. Forse bisogna sempre ribadire che ai partigiani, a cui si deve la liberazione senza alcun tipo di dubbio, va riconosciuto il valore antifascista come fondamentale per la nostra libertà, per il nostro presente, figlio di quella storia. Il prendere coscienza della storia del nostro passato e delle conseguenze del ventennio, può portarci, oltre le diatribe inutili, a imparare cosa abbia significato. Ricordo che i costituenti lo hanno ben specificato in deroga all’art. 48 e nel proclamare i diritti di libertà, di democrazia e bilanciamento dei poteri LEGISLATIVO, ESECUTIVO E GIUDIZIARIO al fine di non far accadere mai più ciò che è stato. Il mio unico dubbio è: ma tutti gli italiani ne sono consapevoli? Buona festa del 25 aprile a tutti voi.

P.S. non ho dimenticato ciò che sta accadendo a Gaza. Inutile dire che è un massacro a tappeto, dove per colpire i militanti di Hamas si sta procedendo a “radere al suolo” la popolazione. Inutile dire quale covo di odio possa essere questo conflitto da ambo le parti, proprio per le vittime che attualmente ammonta a  34.000 palestinesi e un migliaio del 7 ottobre, senza contare le vittime che ancora adesso si stanno sacrificando sull’altare del non-senso e gli ostaggi che hanno subìto tanti orrori.
Inutile dire che bisogna TROVARE il modo per coesistere in PACE: perché un modo ci deve essere. Ovviamente è inutile dire che è appannaggio di chi ha la capacità e il potere di farla questa pace, l’onere di trovare il modo, non a me né ad altri comuni mortali.
Sembra tutto inutile… Ma forse è meglio dirlo ancora una volta in più.
Mariantonietta Valzano

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“Il valore di una ricorrenza” di Maria Rosaria Teni

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Sono tanti i motivi per cui è doveroso ricordare il valore di una ricorrenza come il “25 Aprile”. Intanto perché nello stesso significato di libertà si innesta la naturale ispirazione di ogni uomo, ma soprattutto perché questa libertà conquistata veniva dopo un periodo di oppressione e di iniquità inenarrabili. Sottolineo inoltre, quanto sia fondamentale che soprattutto i giovani, che rappresentano gli uomini di domani, siano consapevoli di quello che è stato fatto da tanti loro coetanei negli anni in cui gli ideali erano così forti da superare anche la paura. Leggendo le “Lettere dei condannati a morte della Resistenza”, molte delle quali scritte da ragazzi ventenni, si percepisce lo smarrimento e l’angoscia, il disgusto per le efferatezze di cui si sono macchiati i carcerieri, ma si coglie anche la fierezza e il coraggio, la fede in una patria che potesse rinascere ed essere finalmente affrancata da un regime che si è imposto con la violenza e col sangue. La morte si sublima per una patria libera, una patria di tutti perché dove c’è un ideale che batte più forte e attutisce anche la paura, bisogna inchinarsi. Donne e uomini di coraggio giacciono tra le campagne, seppelliti in fosse comuni, dilaniati, torturati fieri di essere morti per liberare tutti gli italiani, ormai schiacciati da privazioni e da una guerra sfibrante e lunga. Chi ricorda oggi le tante donne di valore, temerarie e appassionate, figlie, mogli e madri che sono arrivate anche ad impugnare le armi per la lotta nel nome della Libertà? Storie terribili di sevizie, umiliazioni e minacce subite da donne e uomini che meritano tutto il nostro rispetto e il nostro accorato ricordo. La strage di Marzabotto, con almeno 770 vittime, così come gli eccidi di Sant’Anna di Stazzema, di Lippa di Elsane, del Padule di Fucecchio, solo per citare quelli con più vittime a seguito di rastrellamenti. Il 24 marzo 1944 a Roma l’attentato di via Rasella contro un reparto tedesco da parte dei GAP, avvenuto il giorno prima, che provocò l’immediata e spietata rappresaglia delle Fosse Ardeatine. Una vera e propria mattanza si è consumata nei 20 mesi che vanno dall’8 settembre 1943 al 25 aprile 1945. Si stima che il 75 per cento dei combattenti per la libertà dell’Italia dal nazifascismo era costituito da ragazzi nati dal 1922 al 1925. Furono 22mila i giovanissimi tra i 17 e i 19 anni che in modi e tempi diversi aderirono alla Resistenza per un «atto libero della volontà». Uomini e donne, civili e militari, diversi tra loro per estrazione sociale, colore politico ed età. All’indomani dell’armistizio avevano abbracciato la Resistenza oltre 22mila giovanissimi tra i diciassette e i diciannove anni. Erano circa 24mila i giovani tra i venti e i ventitré anni, mentre circa 14mila tra i ventiquattro e i trent’anni. Scrive Aldo Cazzullo[1]: “È importante raccontare la Resistenza come fu davvero: storia di popolo non di partito; non “una cosa di sinistra”, ma la rinascita della patria”. Mi sento di condividere questa chiave di lettura offerta dal giornalista e sono sempre più consapevole che la memoria non debba perdersi dietro dibattitti e dispute da salotto, ma alimentarsi dalla lettura di testimonianze obiettive e realistiche che riguardano il vissuto di quei giorni della Resistenza, per non affondare nel mare dell’indifferenza e del qualunquismo. Oggi non si deve esultare perché il 25 Aprile è un giorno segnato in rosso sul calendario, e quindi di vacanza, ma si deve fare in modo di commemorare una data che è stata scritta col sangue di donne e uomini che hanno combattuto per liberare l’Italia dal nazifascismo e consegnarla a noi, ripulita da ogni dittatura. Quindi se noi, in questi giorni, possiamo essere liberi di scrivere, di avere opinioni, di manifestare e anche di dissentire, lo dobbiamo a quei valorosi che la storia ci trasmette e verso cui dobbiamo rispetto e gratitudine. Onoreremo i nostri morti, continuando a studiare, informarci, conoscere per arginare ricorrenti e incombenti derive antidemocratiche e repressive.
Maria Rosaria Teni

[1] A. Cazzullo, Viva l’Italia! Risorgimento e Resistenza: perché dobbiamo essere orgogliosi della nostra nazione, Mondadori, 2010

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