Il 26 febbraio scorso un’imbarcazione di legno si è spezzata ed è naufragata davanti alle coste calabresi, a Steccato di Cutro, vicino Crotone. I corpi finora recuperati sono 82, tra cui donne, bambini, neonati ma potrebbero essere centinaia. Si presume che l’imbarcazione trasportasse 200 persone, per lo più afgani, e fosse partita quattro o cinque giorni prima da Izmir, in Turchia.
Un evento drammatico che, anche per scelte istituzionali criticate come non idonee, ha riportato in evidenza sia la sofferenza della necessità di emigrare clandestinamente sia il dovere umano del salvataggio e della accoglienza. Accoglienza che dialetticamente si confronta, in politica, con una gestione rispettosa e non pietistica delle migrazioni, e, in psicologia, con l’indifferenza e con la paura dello straniero e, in ultima analisi, con l’estraneo che è fuori di noi e in noi.
Gli studi di psicologia evolutiva ci dicono che nella fisiologica crescita il bambino attraversa, intorno agli 8 mesi, la c.d. “seconda nascita” durante la quale ha inizio una progressiva definizione di sé dalla madre e prova paura sia per la relativa nuova “solitudine” sia per eventuale scomparsa della mamma. Una fase di crescita, di paura, ansia, insicurezza e di autonomia dove l’oggetto transizionale (p.e.il peluche ) diventa un oggetto tranquillizzante verso una nuova e più complessa socializzazione. Il nuovo incontro con l’altro da sé, fuori dalla protettiva simbiosi con la madre, è un incontro con la estraneità percepita e progressivamente integrata attraverso ricche e diversificate esperienze emotive e affettive. Questo nodo evolutivo ci suggerisce quanto ricco e sensibile può essere il rapporto di inter-esse sociale in noi e con l’altro da noi. Tanto complicato complesso e quanto dipendente da culture, storia e storie pedagogiche, religioni e scelte politiche.
Il filosofo Emmanuel Lévinas a questo proposito ci ricorda: “Nel semplice incontro di un uomo con l’Altro si gioca l’essenziale, l’assoluto: nella manifestazione, nell’epifania del volto dell’Altro scopro che il mondo è mio nella misura in cui lo posso condividere con l’Altro. E l’assoluto si gioca nella prossimità, alla portata del mio sguardo, alla portata di un gesto di complicità o di aggressività, di accoglienza o di rifiuto”
Complessità che si riscontra già a partire dalla necessità espositiva di chiarire la differenza tra straniero ed estraneo.
Per straniero si intende comunemente la persona che proviene da una nazione diversa dalla propria ma può esserlo, nell’incontro tra culture molto differenti, anche il migrante interno o chiunque esterno a gruppi chiusi ideologici o religiosi estremamente settari e portatori di “verità” paranoicamente difese.
Estraneo è invece lo sconosciuto, il non noto e il non previsto o prevedibile e in questo senso implica sia la persona sia ciò che è sconosciuto in noi, cioè l’inconscio.
Potremmo dire quindi che lo straniero è anche estraneo e questo ci riporta alla psicologia dello sviluppo e anche alle modalità pedagogiche e ai presupposti gruppali, sociali e culturali.
Per estensione quindi possiamo supporre che la paura per lo straniero è collettivamente attivata da meccanismi socio-politici-ambientali, nonché economici, che fanno leva sulle modalità del nostro sviluppo emozionale e, in particolare, alla emozionalità relativa all’estraneo della nostra infanzia.
L’altro ci si presenta estraneo con il suo corpo ed è proprio il corpo che poi negli adulti svolge un ruolo centrale nella indicazione di straniero oltre quella relativa ai territori di provenienza.
Indicatori possono essere il genere sessuale e tutte le sue diverse espressioni, il colore della pelle, i tratti fisici attribuiti ad una etnia o sub etnia, i tratti fisici tipici attribuiti ai diversi gruppi sociali, gli stigmi fisici che definiscono una differenza significativi rispetto alla presunta normalità ed infine l’insieme degli stereotipi di immagini corporee che vengono usati per costruire differenze all’interno delle quali emerge il nostro straniero interno.
È questo insieme polimorfo e disarmonico che si trova la xenofobia o paura per lo straniero, una modalità di interazione sociale estremamente significativa nella difficoltà nella accoglienza e integrazione.
Una modalità anch’essa polimorfa perché può essere un disturbo d’ansia tipico della fobia oppure una scelta razionale determinata da convincimenti più o meno ideologicizzati. Dall’ansia e dalla paura per una minaccia vissuta aprioristicamente come reale fino a potere rasentare il sottile diaframma con il razzismo e divenire una delle basi fondanti non solo per la identità nazionale ma anche e principalmente per la superiorità della propria etnia o della propria “razza”.
Ancora una volta, l’ignoto, lo sconosciuto, lo straniero può fare paura ma la xenofobia diventa tale solo se è esperienza emotiva e/o razionale collettiva dentro una emozione, percepita o fatta percepire, di impossibilità di un qualunque controllo.
In questo apparente bivio obbligato tra paura e accoglienza si apre uno spazio di ricerca di benessere che è e diventa sempre più ricerca di una umanità più sana e consapevole dei propri limiti che non sono chiusure ma aperture all’altro da noi dentro canali di interazione e comunicazione determinati e accettati.
È dentro un canone accettato di interazione infatti che possiamo incontrare chi o ciò che prima era ignoto, sia esso un uomo o una donna o quel bambino che salviamo dal mare o che, inconscio, facciamo emergere in noi.
Cipriano Gentilino
L’ha ripubblicato su Cipriano Gentilino.
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Un articolo che scopre le nostre intime corde mettendo a nudo fragilità e contraddizioni… Merita tanta riflessione questo scritto che ci aiuta a crescere
Con stima
Mariantonietta Valzano
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