Luglio mi ha salutato regalandomi uno straordinario tramonto, generoso come la terra di un Sud disteso nel tacco di una penisola, definita dai viaggiatori del Grand Tour giardino d’Europa. Un tramonto che io, estatica, ammiravo, elevando il mio pensiero alla bellezza di cui la natura dispone e che elargisce a piene mani, con la speranza di renderci migliori, perché ricchi di tanta magnificenza. Improvvisamente, però, tutta questa bellezza è stata deturpata da una di quelle notizie che non vorremmo mai sentire, un episodio tremendo in cui anche le parole hanno il suono vuoto della sconfitta. Mentre tutto inneggia alla libertà vacanziera e la gente si getta nelle strade assolate, nei lidi o in altre amene località, mentre si cerca di dimenticare il grigiore di giornate passate al chiuso con la paura di contatti e di relazioni, un uomo, ignaro di ciò che stava per accadere, perisce sotto colpi feroci di un altro uomo, in una strada di un centro cittadino, tra una folla che guarda e assiste, come di fronte a un videogioco sul tablet, come davanti a un film al cinema… Dice Liliana Segre: “L’indifferenza è più colpevole della violenza e manifesta l’apatia morale che pervade chi si volta dall’altra parte…”, ma in questo caso, c’è stato anche chi ha filmato ciò che accadeva, qualcuno che ha urlato contro l’aggressore, senza che nessuno, tuttavia, intervenisse. Intanto resta, sull’asfalto infuocato, la vita recisa di un ambulante nigeriano, sposato, con un figlio di 8 anni, che quotidianamente si recava nella città dove poteva ricevere qualcosa in cambio della povera merce che vendeva. Alika, il suo nome, che resterà inciso su una strada calpestata da passi indifferenti, che rimarrà negli occhi di chi ha visto consumarsi una tragedia e poi è tornato nelle proprie case, a discorrere del fatto con gli amici, a sentenziare contro un paese che non argina le ondate di immigrazione, a proporre rimedi che odorano di disgustose reminiscenze storiche. Alika non sarà più un compagno per una donna che lo piange disperatamente e non sa spiegarsi perché hanno brutalmente massacrato colui che per lei rappresentava il suo “tutto”, non sarà più un padre per un figlio di 8 anni che dovrà crescere e vivere in una città che lo ha reso orfano e che lo considera straniero e diverso, perché la sua pelle non è bianca. Mi ha colpito una frase che Tahar Ben Jelloun scrive nel suo libro Il razzismo spiegato a mia figlia: “Siamo sempre lo straniero di qualcun altro. Imparare a vivere insieme è lottare contro il razzismo”. Vivere insieme, non significa vivere accanto e trovarsi sguardi diffidenti se non schifati, ma indica che si deve percorrere congiuntamente un cammino nel segno del rispetto e della garanzia di un linguaggio sempre corretto e mai offensivo nei confronti di chiunque, senza incitare alla violenza e alla prevaricazione. I pregiudizi sono pericolosi e possono ribaltarsi anche nei confronti di chi li adotta, perché in realtà ognuno di noi ha una storia, un passato ed è sempre a Sud di qualcuno. Un’arma di cui tutti disponiamo,tuttavia, esiste: è la parola, la possibilità di esprimere i propri sentimenti e di dare un nome e una consistenza a quelle ingiustizie che soffocano la civile convivenza, la forza di portare solidarietà verso chi non ha voce e non può difendersi, manifestando anche contro le maglie di pregiudizi che ancora sopravvivono in una società che si autodefinisce democratica. Mi piace concludere con una poesia di Léopold Sedar Senghor, un poeta senegalese che tanto ha lottato per i più deboli e indifesi. [ Maria Rosaria Teni]
Caro fratello bianco, quando sono nato ero nero,
quando sono cresciuto ero nero,
quando sto al sole, sono nero.
Quando sono malato, sono nero,
quando io morirò sarò nero.
Mentre tu, uomo bianco, quando sei nato eri rosa,
quando sei cresciuto eri bianco,
quando vai al sole sei
rosso, quando hai freddo sei blu,
quando hai paura sei verde,
quando sei malato sei giallo,
quando morirai sarai grigio.
Allora, di noi due, chi è l’uomo di colore?
Poème à mon frère blanc di Léopold Sedar Senghor
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